Tutti ne scrivono, per accusare o per difendere.
Tutti si sentono in dovere o in diritto di esprimere un parere sulla sua vicenda, tanto chi lo fa, quanto chi critica chi lo fa.
Dire o tacere, tutti scrivono in difesa della prima o della seconda ipotesi, rinunciando comunque a tacere per dire.
Escluso chi la conosce di persona – la sua famiglia ed i suoi amici – tutti ne parliamo senza sapere di lei nulla se non la cronaca, senza tema di sondarne il cuore e la mente, non avendole mai neppur detto buongiorno sulle scale del condominio.
Tutti la usiamo, anche io che ne sto scrivendo.
La usiamo per dare corpo alle nostre paure e provare a vincere i nostri limiti: chi la accusa e chi la difende. Abbiamo paura che possa accadere a noi, abbiamo paura di non avere la libertà di fare, al punto che possa accadere a noi.
Chi si esprime sul suo ritorno – salvo i santi e gli scellerati - di lei poco importa, importa davvero quello che rappresenta per ciascuno la sua libertà o la sua prigionia. È ruvido quel che scrivo, ma se ognuno di noi si ferma un secondo a pensare scopre che chi è contento, ieri non ci perdeva il sonno e chi è arrabbiato, prima aveva altri bersagli.
Tutto questo un tempo lo si faceva al bar, in piazza, sul pianerottolo. Oggi che questi luoghi sono chiusi causa pandemia lo facciamo in digitale che ha aperto questi luoghi prima e dopo la pandemia, rendendoli universali.
Tutti ne scriviamo dunque per un insopprimibile bisogno umano che è quello di dare senso a ciò che accade.
Verbalizzare la realtà, i sentimenti ed i pensieri che essa provoca è quel gesto che ci umanizza, che ci permette di essere la differenza tra un mondo che fa a meno di noi ed un mondo che dipende da noi. Diamo parole alle cose perché esse possano parlarci di noi, diamo parole agli eventi per tentare di averne un minimo di controllo.
I 100 giorni della pandemia ci hanno portato via così tante certezze e speranze che, oggi più di ieri, dobbiamo velocemente dare senso nuovo o ridare senso diverso a tutto ciò che accade.
Ne abbiamo bisogno con la rapidità che la tecnologia ci chiede e ci offre, ne abbiamo bisogno per la carenza di terra sotto i piedi che ci consegna quella sgradevole sensazione di affogare nell’ignoto.
Silvia Romano è un pretesto per dare voce, ordinata o sconsiderata, a questo nostro bisogno di senso, per dare voce al nostro bisogno di libertà e di pace, di giustizia e di serenità. Il fatto che tanti abbiano scritto senza calcolo, più dalle viscere che con le sinapsi, racconta quanto siamo sulla corda e quanto essa sia tesa su di un abisso che ci spaventa perché né una mascherina né un gel disinfettante possono bastare davvero.
All’umanità che ha bisogno di dare senso alla realtà sono dati solo due doni davvero necessari: la libertà di credere e la libertà di conoscere. E tutti e due nascono dal diritto ad essere educati.
Il tema vero che Silvia Romano dovrebbe suscitare è questo: dopo la pandemia quanto faremo perché ognuno abbia davvero la possibilità di essere educato a credere e conoscere?
Discutiamo di questo nel digitale, prima che l’abisso ingoi una umanità che spera di tornare gaudente e non ha capito che l’unica gioia consiste nel sapere perché siamo al mondo e per chi vale la pena vivere.