Key4biz: Quello che dai media è stato definito il caso Straberry è un interessante occasione di riflessione rispetto ad una indagine valoriale ed etica sulla trasformazione digitale e sull’innovazione tecnologica applicata alla vita d’impresa. Il fatto di cronaca, fermo restando che l’indagine è in corso, riguarda una start up lombarda che coltiva e vende frutti di bosco, accusata dalle Fiamme Gialle di sfruttamento nei confronti di decine di braccianti. Stando a quanti riporta Repubblica: «Nei campi di Cassina de’ Pecchi, infatti, moltissimi dei braccianti venivano presi per un periodo di prova di due giorni: se non riuscivano a raccogliere almeno quattro o cinque cassette di fragole all’ora, in una giornata di lavoro massacrante di nove ore, erano fuori. Obiettivi difficili, soprattutto per mani inesperte. Una modalità completamente fuori dalle regole, attraverso cui l’azienda si garantiva lavoratori a costo zero».
La mia tesi è semplice: una cattiva impresa non diventa buona nel momento in cui usa una narrazione avvincente con quelle parole chiave che fanno impazzire ed impazzare gli algoritmi delle piattaforme e di LinkedIn.
Belle idee, raccontate bene, con belle immagini è una bella presenza anche in rete: è spesso solo cosmesi. Il digitale permette non solo alle persone, ma anche alle imprese di avere una second life (come il videogioco). Con la differenza che se a giocare è un’impresa, a farci le spese quasi sempre sono i dipendenti perché tanto più l’immagine è positiva, tanto meno diffuso sarà l’interesse a cercare verità e giustizia. In altre parole: l’uso cosmetico delle idee e della comunicazione quale idea di lavoro porta con sé? E il digitale è solo l’ultima tecnologia per presentare le virtù dell’innovazione nascondendo i vizi più antichi del mondo? La trasformazione digitale sempre di più rende la realtà codice e la raccolta di codici una narrazione che sostituisce la realtà stessa. L’infosfera deve essere considerata al pari della biosfera, un luogo da custodire e preservare con dati ed informazioni che la mantengano antropica, capace di custodire la vita nelle varie forme e modalità, anche culturali, in cui essa si manifesta. In un tempo in cui la politica fatica ad essere profetica ed i corpi intermedi sono massacrati da una cultura individualista ed orientata sul sé, sono rimasti pochi i soggetti che guidano il vivere e determinano i processi culturali. A ciò dobbiamo aggiungere che, cadute le ideologie, pare che non vi sia un progetto politico ed economico che indichi come organizzare la propria vita ed il proprio vivere sociale. Si improvvisa, tutti, alla giornata, e la digitalizzazione permette di illudersi di poterlo fare senza conseguenze. Il covid non ha aiutato perché ha fatto tramontare anche l’unica fede che era rimasta condivisa dai più, quella nella scienza. Tuttavia abbiamo tutti bisogno di salvezza e di salvatori, che si sia credenti o meno, che si inscriva questo bisogno in una fede tradizionale o in spiritualità più o meno immanenti. La nuova religione del presente continuo è quella delle parole efficaci, delle parole che rassicurano e rasserenano. Sono quelle pre covid come: innovazione, start up, digitalizzazione, big data. Poi ci sono quelle post covid, quelle che il covid ha vitalizzato: inclusione, sostenibilità, circolarità. In declino merito ed eccellenza, sarà perché tutti coloro che erano così meritevoli ed eccellenti sono naufragati nell’onda del pipistrello cinese. Ed infine la migliore di tutti, il condimento messianico per eccellenza: etica. L’infosfera è farcita di queste parole, i position papers se ne abbeverano, chi le usa vince premi e bandi. E qualcuno ci costruisce delle vere e proprie truffe. Cosmesi d’impresa.
Per una ecologia delle parole
Abbiamo bisogno di una sana ecologia delle parole affinché l’infosfera non diventi velenosa ed irrespirabile. Per ecologia delle parole intendo il fatto che sia necessario che chi usa le parole sappia cosa esse significhino e chi le percepisce possa comprendere cosa essere rappresentino. L’accelerazione tecnologica ha inceppato il motore della produzione di senso e di significato. Usiamo di continuo neologismi e parole tecniche senza che queste abbiano davvero un significato, una densità, un contenuto sufficientemente evocativo e di senso, certamente per chi le ascolta, molto spesso anche per chi le pronuncia. Affinché si possa invertire la rotta è necessario ri-alfabetizzare la società rispetto alla cultura digitale. È una questione di giustizia sociale e di tenuta democratica. Le parole del digitale non possono più essere una black box, una scatola nera da prendere per buona. Cosa significa intelligenza artificiale, trasformazione digitale? Cosa è innovazione? Cosa è una start up?
Una considerazione a sé la merita la parola etica, il cui uso è spesso la tomba di ogni etica. Tutti sbraitano che ci vuole etica, a maggior ragione se si tratta di tecnologie emergenti per cui si naviga tra il luddismo becero ed il tecno entusiasmo ingenuo. Per vivere nel mezzo, o sembrare equilibrati, la parola magica è etica. Ma dire etica non vuole dire assolutamente nulla. L’etica è un contenitore di prassi consolidate, accettate dai più, imposte ai meno, validate da processi logici e legate ed un processo epistemologico che cambia a seconda delle epoche. Un po’ come la parola valori, che va bene su tutto, come il nero, ma dentro la quale si fanno stare esatti contrari. Cosa mettiamo dentro a questa scatola? In definitiva cosa è bene e cosa è male?
Senza questo percorso, senza assumersi delle concrete responsabilità che ci fanno uscire dal grigiore del va tutto bene purché non debba fare nulla, saremmo sempre di più esposti ai casi Straberry, ma soprattutto saremmo sempre di più ignari devoti di una tecnoreligione gestita da gran sacerdoti informatici in mano a Big Tech sempre più monopoliste. Non c’è bisogno di temere l’arrivo di Terminator, la nostra ignoranza basta da sola. La buona notizia è che può essere sconfitta, insieme. Questo penso sia il bene comune da perseguire in questo tempo.