Boella, docente e fondatore di Sipeia: “Una tecnologia energivora ma che può dare benefici all’ambiente. L’Italia delle Pmi svantaggiata rispetto alle grandi imprese che possono permettersi capitali e competenze”.
Don Peyron: “Niente paura, ma è uno strumento che genera cultura dunque non neutrale. Va governato. Può aiutare il Terzo settore nelle sfide sulla solidarietà e l’inclusione”
Mentre a Torino dopo un lungo “stop and go” decolla la Fondazione AI4industry – il primo Centro per l’intelligenza artificiale in Italia che per ora il governo ha voluto concentrato su due missioni che sotto la Mole hanno terreno fertile: l’automotive e l’aerospazio – una serie di ricerche danno una misura di quanto valga questo nuovo settore dell’economia. Il rapporto Anitec-Assiform ha stimato il mercato italiano dell’AI nel 2023 in 570 milioni, destinati a diventare un 1,2 miliardi tra due anni. Briciole se si tiene conto che il valore di mercato mondiale dell’AI è di 135 miliardi. Ma è la crescita che fa ben sperare: gli esperti valutano una performance del 30 per cento l’anno. Marco Gay, presidente di Confindustria Piemonte – che invita a non parlare dell’AI come di una tecnologia d’avanguardia, semmai di un “futuro prossimo” – spiega il prossimo passo: entrare nelle filiere industriali. La “nuova Internet” sarà dunque un nuovo anello (fondamentale) dei processi produttivi.
Ma viene da chiedersi quale possa essere l’effetto dell’AI nell’economia di impatto. Guido Boella, docente all’Università di Torino e fondatore di SIpEIA, la Società italiana per l’etica dell’intelligenza artificiale, dice che «Di sicuro è una tecnologia che permette di ottimizzare molti aspetti della produzione. Dunque può aiutare le imprese nel rendere più efficiente il ciclo di lavorazioni. Con un risparmio di risorse energetiche e quindi benefici anche sul fronte ambientale». Ma subito precisa: «Per contro c’è un impatto negativo. L’AI oggi come oggi è una tecnologia energivora. Basta un piccolo esempio per darne un’idea: una domanda a chatGPT brucia l’energia che serve per la ricarica di uno smartphone. Due gli inconvenienti: il grande consumo di acqua e di energia. E spesso non si tratta di energia ricavata da fonti rinnovabili ma di origine fossile. La prova è nel recente record di consumi di carbone da parte della Cina. La speranza è che con l’evoluzione dei server e, in generale, dei processi che stanno dietro l’AI vada a ridursi il consumo di energia».
Molto dispendiosa è la fase di apprendimento dell’AI. ChatGPT è riuscita là dove altre aziende avevano fallito semplicemente puntando su una scala più grande. Che però vuol anche dire consumi più elevati. Ma è solo questione di tempo e poi si riuscirà a ridurre l’impatto energivoro dell’AI”. Quando, però, adesso come adesso è ancora un punto interrogativo.
Boella sottolinea un altro nodo, tutto italiano: «La spina dorsale della nostra economia è fatta da piccole e medie imprese. Proprio la dimensione piccola rende difficili i processi di digitalizzazione avanzata. Però ci sono strumenti pronti a supportare le Pmi. L’Unione Europea per esempio ha affiancato ai contributi a pioggia per sostenere le imprese verso l’intelligenza artificiale 250 European Digital Innovation Hub». In Italia sono 13 legati cofinanziati dall’UE e più di 20 collegati solo al PNRR. Questi sportelli unici – “One shop stop” – ricevono i soldi da Bruxelles e forniscono servizi gratuiti o agevolati a supporto nei processi di riqualificazione digitale. L’obiettivo finale dell’Europa è facilitare una doppia transizione: tecnologica e ecologica. Per inciso Boella sottolinea che il Piemonte in quanto a questo tipo di centri «è messo bene». Sono quattro in tutto: due gestiti da UniTo, e due dal Competence center CIM4.0.
Resta però da valutare l’aspetto sociale della “nuova Internet” come la definisce Gay. Può essere socialmente sostenibile? Boella intravede un rischio concreto: «Vista la scala di investimenti, si può arrivare a una disuguaglianza assai ampia tra le grandi aziende che possono permettersi capitali e competenze e il resto delle imprese». E non è finita: «Poi bisogna capire qual è l’impiego che si immagina dell’intelligenza artificiale: per affiancare i lavoratori che ci sono o per sostituirli? Perché se vince la seconda ipotesi ci troviamo di fronte a un taglio di posti di lavoro e dunque a costi sociali importanti da mettere in conto». Dinamiche di mercato che si possono applicare anche a un settore come quello della sanità. Ancora Boella: «L’AI viene impiegata per affiancare i medici, consentendo di migliorare le prestazioni o sarà utilizzata per sostituire i medici con delle macchine che fanno diagnosi?». E aggiunge: «Ma è un discorso che investe anche la cultura e l’informazione: l’intelligenza artificiale sfrutta per il suo lavoro articoli, saggi, libri coperti da copyright. Il rischio che i diritti dei lavoratori vengano abbassati è concreto. Ecco perché occorre un utilizzo consapevole e etico dell’intelligenza artificiale. Oltreché sicuro».
Don Luca Peyron, direttore dell’Apostolato digitale della diocesi di Torino e l’uomo che per primo ha lanciato l’idea di Torino capitale dell’intelligenza artificiale, dice che ai dibattiti ogni volta che si parla di intelligenza artificiale spunta l’elenco delle criticità. Tutti terribilmente spaventati da questo moderno Moloch. «Eppure è una tecnologia generale come l’elettricità o il motore a scoppio. Può essere utilizzata ovunque. La differenza è che è una tecnica che genera cultura. Dunque non neutrale. Ma non si tratta di dare disco verde o rosso al suo utilizzo». E che aiuto può dare al mondo del terzo settore? «Detto che non nasce con questo fine, imprese sociali e Terzo settore devono essere capaci di usarla al meglio per diffondere principi cardine come la solidarietà, l’inclusione, la difesa delle fragilità». Questione di algoritmi insomma. Dipende da come li educhiamo, cioè dai dati che gli diamo “da mangiare”.
Don Peyron aggiunge: «Il carico etico e valoriale è quello che fa la differenza anche dal punto di vista imprenditoriale. Se costruiamo macchine che non rendono l’uomo più contento di essere sé stesso saranno macchine che non comprerà nessuno. Ma tutto questo a patto che avvenga in un contesto in cui c’è democrazia. Oggi non è così: come hanno sottolineato alcuni giuristi, viviamo un periodo neofeudale dove la democrazia è sospesa perché in mano a poche grandi imprese che gestiscono le nuove tecnologie. Quindi bisogna prima sanare questo vulnus».
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