Pensare al dopo è stata la prima preoccupazione del subito e del durante. Il dopo non sarà domani, ma non è più così lontano. Possiamo condividere qualche pensiero già ora per la pastorale che verrà? Per cominciare credo che questo dovrebbe essere prima di tutto un tempo apofatico: proviamo a dire quel che forse è bene che non sia, per poter disegnare così un orizzonte credibile.
La pastorale di domani non deve essere una rivincita sulla pastorale di ieri, usando la pandemia come monito divino che ci aiuta ad una qualche conversione. Alla domanda di schierarsi Gesù rispose che non si sarebbe fatto giudice di quella questione, alla domanda di chi siamo la riposta è di Cristo, non di Apollo o Paolo. La verità non abita in una parte, piuttosto le parti debbono dialogare per trovare la Verità che non può appartenere a nessuno come forma di divisione, non è il gioco del relativismo, ma il bisogno della comunione, quella che Benedetto XVI indicava come la ricerca dell’orizzonte più ampio in cui collocare orizzonti più ristretti.
Regaliamoci un discernimento sui segni dei tempi con una riflessione condivisa e dialogante e non una rivendicazione per sostenere ragioni sino ad ora inascoltate. Il virus non le rende né più né meno esatte. Vero piuttosto che un sistema è stato messo in crisi, ma non è vero che nulla sarà o potrà essere come prima. Come è stato notato in ambiente laico non mettiamo in moto una macchina eziologica millenarista, piuttosto chiediamo allo Spirito di conservare nova et vetera. Venendo al proprio di questa pagina e del nostro servizio, la quarantena ci ha abituato ad un uso massivo delle tecnologie digitali con cui, di fatto, abbiamo trasferito on line la pastorale.
La necessità non ha aguzzato più di tanto l’ingegno, infatti abbiamo spesso solo semplicemente ripreso e trasmesso quello che eravamo abituati a fare in presenza. Sarà necessario ripensare queste modalità, affinarne alcune, abbandonarle altre. Non dobbiamo pensare che il confinamento che perdurerà in modalità ancora da definire possa essere continuativamente risolto così. Gli strumenti di telepresenza e di collaborazione virtuale non possono semplicemente sostituire la prossimità e la socialità senza conseguenze durature, anche se danno l’impressione di essere buoni compromessi senza bisogno di particolari adattamenti. Dunque una pastorale nel digitale, con il digitale o per il digitale? Vi è circolarità in queste modalità, ma il punto di innesto che si sceglie fa una grande differenza. Pastorale nel digitale significa abitare un ambiente portandovi un annuncio ed una postura. Pastorale per il digitale è criticare o sostenere una tecnologia rispetto ai principi della dottrina sociale e della morale – come nel caso delle tecnologie cyborg o di AI.
Pastorale con il digitale invece significa usare della tecnologia per assolvere al mandato che ci è dato. Quest’ultimo aspetto è l’urgenza della stagione che viviamo, ma dobbiamo tenere presente nella riflessione la circolarità di cui facevo cenno per non scegliere soluzioni ingenue e controproducenti. Il mezzo resta un potente messaggio ed il nostro compito è annunciare un messaggio attorno al quale si raduni una comunità rendendo presente il Messaggero. Il mezzo ha la capacità di sostenere questo processo o di fagocitarlo ed annullarlo, con la stessa facilità e spesso senza che si possa rendersene conto.
Non possiamo immaginare ad esempio che la Chiesa diventi un’agenzia di consulenza ed i nostri formatori, catechiste, educatori, preti un servizio di assistenza in remoto. Tanto più che il digitale usato in questa modalità genera una richiesta di attenzione maggiore ed una corrispondente richiesta di disponibilità continua. Chi ha fatto esperienza di smartworking rileva che non ha lavorato di meno e meglio, ma di più e spesso peggio.
Lo schermo annulla l’orario ed aumenta le pretese. Il digitale chiede di essere performanti, perché è una macchina. Quali risvolti sulla pastorale che dovrebbe puntare ai frutti e non ai risultati?
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