Don Luca Peyron: "Con l'AI democrazia a rischio"

 Intervista al teologo e professore della teologia della trasformazione digitale alla Cattolica di Milano: "L’intelligenza artificiale è uno strumento di potere e uno strumento d'ordine, che diventa significativo in mano a pochissimi soggetti"

Un simpatico post su Linkedin che parla dei primi tre giorni del Papa che coincidono con i temi che sta portando avanti già da qualche anno: “Ma resto umile…”. Don Luca Peyron è teologo e ironico, più che altro entrambe le cose insieme, ma si fa serissimo quando avverte come l’intelligenza artificiale sia un tema che la Chiesa deve affrontare con velocità e impegno: “Francesco per fortuna aveva già cominciato a parlarne, Leone XIV darà sicuramente continuità. Il fatto che abbia detto che la scelta del suo nome in buona parte arrivi da questo aspetto, è uno sprone per darsi da fare di più”.

Don Luca di AI ne parla da anni, è professore della teologia della trasformazione digitale alla Cattolica di Milano, nonché direttore della Pastorale Universitaria a Torin e coordinatore del servizio per l’apostolato digitale: “A 23 anni, mi sono occupato tra i primi in Italia del rapporto tra internet e diritto: i grandi nomi del settore non sapevano neppure accendere un computer, così come oggi non sanno bene come maneggiare l'intelligenza artificiale. Poi, quando ho preso i voti, Monsignor Giuliodori mi chiese di assumere la cattedra universitaria. Il servizio ecclesiale nasce poi nel 2019 per provare a capire cosa stia accadendo sulle tecnologie emergenti”.

Come affrontare dunque il tema IA legato alla fede?

“Ad intra rispetto all'annuncio del Vangelo e ad extra rispetto al dialogo con il mondo. Per questo sono stato anche il promotore della fondazione italiana per intelligenza artificiale applicata alle industrie, che lavora a Torino per conto del governo”.

Cosa c’entra la Bibbia con l’intelligenza artificiale?

“C’entra, ma bisogna fare dei passaggi: si tratta innanzitutto di una locuzione scivolosa che significa tante cose. Quello che è certo è che l'IA non è più uno strumento, ma è una cultura. Una modalità di esercizio di un certo tipo di tecnologia che è sempre più il modo con cui noi leggiamo la realtà e noi stessi”.

E qual è il pericolo?

“Faccio un esempio: la macchina quando è efficiente, efficace e veloce viene considerata buona. Se io traspongo questo criterio alle persone, solo una persona efficiente, efficace e veloce diventa buona. E questo crea un'ansia da prestazione permanente, soprattutto nei giovani”.

Il rischio è di sentirsi inadeguati.

“Esatto. Poi c’è il fatto che la macchina non solo imita piuttosto bene, ma spesso va oltre l'umano in alcune funzioni. Se io smetto di esercitare il mio controllo la realtà diventa mediocre statistica. E se smetto di pensare perché una macchina lo fa per me, sarò ancora capace di avere un pensiero critico?”.

E quindi è cultura a senso unico.

“È l'effetto IKEA: io ho mangiato nel seggiolone da bambini di paglia in cui ha mangiato mia madre, mia nonna, la mia bisnonna. I miei nipoti hanno mangiato su un seggiolone di plastica: è molto più comodo, però le nostre case rischiano di diventare identiche. E la democrazia è a rischio”.

In che senso?

“L’intelligenza artificiale è uno strumento di potere e uno strumento d'ordine, che diventa significativo in mano a pochissimi soggetti. Se con gli algoritmi sposto il consenso e solo quattro persone al mondo decidono come dobbiamo vestire o quale seggiolone comprare, non è lo Skynet di Terminator ma poco ci manca”.

Torniamo alla Bibbia…

“Il cristianesimo si fonda su tre idee fondamentali: che Dio esiste ed è padre figlio e Spirito Santo, che Dio si è incarnato, e che Cristo è risorto. Significa che l'essere umano nel momento in cui Cristo ne assume la carne, assume una dignità che già in parte aveva perché immagine e somiglianza di Dio. Ma nel momento in cui Dio stesso ne assume la carne, assume una dignità divina”.

Quindi?

“Per i cristiani tutto ciò che autenticamente umano, è autenticamente divino e divinizzabile. E’ il punto di incontro tra il cristianesimo e chiunque altro: perseguire l'autenticità e la pienezza dell'umano è l'obiettivo in cui si può riconoscere anche chi non crede. La Bibbia come codice di lettura antropologica della convivenza sociale diventa un mezzo per decodificare anche la cultura derivata dell'intelligenza artificiale, e non solo per i credenti. Questo è il nesso di fondo”.

C’è il pericolo che l’IA possa trasformarsi in una specie di religione?

“Un esempio: se Zuckerberg dicesse che lui può risolvere il problema della solitudine dando un bot con cui parlare, crea solo un'illusione. Deumanizza, perché parlare con una macchina, e al di là dei dati che consegno al caro Zuck, non tira fuori l'umano che sono”.

Quindi?

“Quindi non è un pericolo: sta già succedendo. Se ascrivo alla macchina una posizione di partner umano, addirittura di oracolo, ne faccio realmente un idolo, cioè uno strumento di salvezza. E chiudo il cerchio dell'involuzione umana”.

Qual è l’antidoto?

“Capire che la macchina, al massimo, può trasferire una parola che informa, che non è quella che performa strutturante la Parola di Dio. Se penso con l’IA di parlare con Padre Pio o Gesù Cristo, mi accontento di una roba che non è un solo po' meno, ma è proprio un'altra cosa. Un inganno”.

E si annulla il valore della confessione.

“Una macchina può essere un oracolo che mi aiuta a stare in certe regole. Però l'incontro con la Misericordia di Dio non è andare a chiedere al prete se quello che ho fatto è peccato o no. Gesù diceva ai farisei: passate la vita a fare leggi, ma con Dio non avete un rapporto”

È difficile spiegare questo ai giovani oggi?

“No. Quest’anno ne ho già fatto 94 conferenze nelle scuole o in università: i ragazzi sono nativamente consapevoli. Il difficile è il passo successivo: come faccio a non essere digitale? Qualcuno mi risponde: se è una cosa legale è giusto farla. Io però faccio notare che anche Hitler è salito legalmente al potere”.

Cosa può fare allora il Pontefice?

Papa Francesco ha sostenuto chi provava a capire qualcosa di questi temi quando c’era chi mi chiedeva se fossi un impallinato. Ora è chiaro che l’IA riguardi la Chiesa, che non è uno strumento ma una postura esistenziale.

Il rischio di monopolio assoluto può essere scalfito non con le leggi, ma grazie a un'opinione pubblica consapevole senza la quale non saremmo più liberi, Ecco: il Papa può permettere anche le persone più semplici di rendersi conto che questa non sia una questione marginale. Ma un cammino verso una democrazia più compiuta”.

Leone XIV. Don Peyron: “Sull’intelligenza artificiale desidera lavorare insieme a tutti noi”

 Prevost “è un uomo con una grande spiritualità ed una preparazione alla spalle di tutto rispetto” ma fin da subito ha anche dimostrato di essere “così tanto capace di leggere i segni dei tempi e desideri esserci immerso. Azione e contemplazione, una sintesi molto bella”, nota il sacerdote torinese, fondatore e coordinatore del Servizio per l’apostolato digitale. “Siamo carenti di scienza e di una cultura capaci di governare quanto accade. Anche di teologia e filosofia appropriate”, osserva: “Abbiamo bisogno di densità più che di velocità”

Sono già numerosi gli spunti offerti da Leone XIV nei primi discorsi pronunciati nei primi quattro giorni di Pontificato: pace, sinodalità, evoluzione tecnologica, giovani… Nella scelta del nome, Papa Prevost ha spiegato lui stesso che vuole mettersi nel solco del Pontefice della Rerum Novarum “per rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale”. Poi, incontrando i rappresentanti dei media convenuti a Roma per il Conclave, è tornato di nuovo sul tema dell’intelligenza artificiale parlando del “suo potenziale immenso” e della necessità di “responsabilità e discernimento per orientare gli strumenti al bene di tutti, così che possano produrre benefici per l’umanità”. Ne parliamo con don Luca Peyron, sacerdote dell’arcidiocesi di Torino con alle spalle un’esperienza accademica e professionale nell’ambito del diritto industriale, direttore della Pastorale universitaria diocesana e regionale nonché fondatore e coordinatore del Servizio per l’apostolato digitale che è uno dei primi servizi a livello globale della Chiesa cattolica con il compito di riflettere, progettare e agire rispetto alla cultura digitale in una prospettiva di fede.

Don Peyron, quelle di Papa Leone immagino siano parole che le abbiano fatto più che piacere e che ora chiedono un rinnovato impegno…
Mi hanno toccato due aspetti. Il primo che abbia voluto spiegare la scelta innanzitutto al collegio dei cardinali, coloro che per primi condividono con lui la grande responsabilità di governare la Chiesa e guidare il popolo di Dio. Segno che su questo tema desidera lavorare insieme a tutti noi. Una sinodalità reale.

Il secondo aspetto che mi ha toccato è che

un uomo con una grande spiritualità ed una preparazione alla spalle di tutto rispetto sia anche così tanto capace di leggere i segni dei tempi e desideri esserci immerso. Azione e contemplazione, una sintesi molto bella. Ed un invito per chiunque.

Su cui, almeno in queste prime ore del suo Pontificato, continua a tornare, così come sul tema della pace. Siamo, per dirla ancora con Francesco, in un cambiamento d’epoca in cui ci giochiamo moltissimo.

Sempre rivolgendosi ai cardinali, due giorni dopo l’elezione, il Papa ha evidenziato l’esigenza della “creazione di una cultura, di ambienti umani e digitali che diventino spazi di dialogo e di confronto. E guardando all’evoluzione tecnologica, questa missione diventa ancora più necessaria”. Con che animo ha accolto queste parole? Non siamo all’anno zero in questo ambito, in che cosa serve accelerare?

Non credo sia necessario accelerare, piuttosto il contrario, rallentare, non nei processi tecnologici, ma nel tempo che ci diamo per rifletterci sopra.

La tecnica va oggi molto veloce, ma la scienza non è al passo, non precede per forza di cose la tecnica.Siamo carenti di scienza e di una cultura capaci di governare quanto accade. Anche di teologia e filosofia appropriate. Abbiamo bisogno di densità più che di velocità.

Tale densità si può raggiungere se le migliori forze che abbiamo si applicano e si mettono insieme. Penso ad esempio al progetto “La Chiesa ti ascolta” nato dal Sinodo, una presenza nel continente digitale di tanti missionari e missionarie digitali che abitano la rete con amore e con spirito di servizio. Le parole di Leone ci aiutano a sentirci ancora di più con la Chiesa e nella Chiesa. Le parole forti e miti di Papa Prevost creeranno ancora di più queste condizioni. Questo mi rende felice perché non siamo oggi in molti nella Chiesa ad occuparci di questi temi, saremo di più e saranno i migliori. Certamente migliori di me e questo mi consola tanto.

Nel suo primo Regina Caeli, Leone XIV ha invitato i giovani ha esortato i giovani: “Non abbiate paura! Accettate l’invito della Chiesa e di Cristo Signore!”. Da cappellano universitario Lei ha a che fare con molti giovani. Cosa chiedono alla Chiesa? In che modo possono essere più coinvolti?
Papa Leone ha invitato i giovani a non avere paura di accogliere la vocazione che il Signore propone loro, a non tacitare il desiderio più grande che hanno nel cuore e forse neppure sanno di avere. Per quel che capisco

i giovani chiedono ai cristiani adulti di essere loro compagni di strada in questa ricerca e, soprattutto, di essere credibili testimoni che un sì detto a Dio riempie il cuore di gioia e non ti consegna ad una vita depressa e fatta di rivendicazioni.

Papa Francesco diceva Evagelii Gaudium, possiamo parafrasare con gaudium vocationis. A cui dare spazio concreto nella vita della Chiesa.

Lei è in queste settimane in libreria con il suo ultimo volume “Sconfinato”, per i tipi di Edizioni Sanpaolo. A cosa allude il titolo e come si colloca in questo tempo della Chiesa?
Sconfinato è il racconto di tante notti trascorse a contemplare il cielo stellato con l’uso di un telescopio in accoglienza di una bellezza nascosta che ci può aiutare a smettere di nasconderci, a scoprire il bello che ci abita. Il cielo sconfina e se solo ce ne rendessimo conto di più la terra sarebbe un posto diverso, il nostro cuore e la nostra vita sarebbero diversi. A partire dallo stesso Gesù, lo sconfinato per eccellenza: incarnato, esule, ucciso fuori delle mura, risorto e che si aspetta sull’altra riva. Nella mia piccola esperienza pastorale sempre di più sento l’esigenza di mostrare la pertinenza della fede con la vita, della scienza con il credere, della Scrittura con il tempo che viviamo.

Passando per l’astronomia che è una scienza che meravigliosamente ci mostra che le notti non sono buie e restituendo così speranza al nostro andare. Passando per l’intelligenza artificiale che è una grande provocazione alla nostra vocazione umana.

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Il Papa e l’Ai, un’altra Rerum per non idolatrare la tecnologia


Sabato, incontrando i cardinali, il pontefice Prevost ha chiarito la continuità con Leone XIII: affrontare una nuova rivoluzione industriale, stavolta digitale, con gli strumenti della Dottrina sociale. Ne abbiamo parlato con don Luca Peyron, sacerdote torinese, a capo dell'Apostolato digitale della sua arcidiocesi, docente della Cattolica, membro della Fondazione per l'intelligenza artificiale

«Comunque vorrei far notare che il Papa il primo giorno di pontificato ha parlato di Madonna di Pompei (di cui sono parroco), il secondo di tecnologia e missione (e coordino il servizio per l’Apostolato digitale) ed il terzo che ha scelto il nome Leone pensando all’intelligenza artificiale (di cui mi occupo con la Fondazione per l’Intelligenza Artificiale di Torino). Ma resto umile :-)».

Aldilà dell’ironia, davvero preziosa in chi fa il prete, Luca Peyron, torinese, classe 1973, in questo post sul suo profilo LinkedIn di sabato scorso, è davvero umile, perché già nel 2019 organizzava Rerum Futura, un millennials digital labo, in cui, si leggeva nel programma, «gli studenti universitari possono unirsi in modalità interdisciplinare per applicare le loro conoscenze alla risoluzione di problemi sociali, e in questo compito possono lavorare fianco a fianco con giovani di altre Chiese o di altre religioni». E, ovviamente si parlava anche delle sfide che la transizione digitale, Ai compresa, poneva in termini di equità, accesso, tutele dei diritti. 

Peyron, che insegna alla Cattolica di Milano, ha da poco portato in libreria SconfinatoNuove cronache di cieli sereni (edizioni San Paolo), incentrato sul rapporto tra fede, scienza, speranza e vita.

Don Peyron, il Papa in uno dei suoi primi discorsi, ha appunto fatto un riferimento esplicito al legame tra la scelta del suo nome, Leone XIV, con il pontefice della Rerum Novarum, Leone XIII, “inventore” della Dottrina sociale della Chiesa, che parlò al mondo nel pieno di una Rivoluzione industriale. Oggi la Chiesa, nel pieno di un’altra rivoluzione, quella dell’Ai, offre all’umanità i suoi insegnamenti. Lei ha appena scritto un libro su fede e scienza, ci aiuta a capirne la portata della scelta del nuovo Papa?

È una scelta indubbiamente molto forte.

Perché?

Perché il nome per un Papa non è un vezzo, è il primo indicatore del suo sguardo e della sua sensibilità, del continuum che desidera custodire e rilanciare. Possiamo dire che è il modus con cui ritiene di interpretare il mandato petrino, il presiedere nella carità le Chiese e dunque la Chiesa universale.

Questo riferimento dritto all’intelligenza artificiale, alla tecnologia?

Già papa Francesco si è occupato di Ai in un crescendo di interventi diversi. Il fatto che per Leone sia uno dei fattori più significativi dice, per un verso, che l’intelligenza artificiale è sempre di più il fattore chiave del tempo che viviamo e dall’altro che essa incide su tutti gli aspetti della vita. Lei ha citato il mio libro Sconfinato: è un diario di viaggio in cui, attraverso l’osservazione del cielo, fatta usando tecnologia, si può scoprire un viaggio altrettanto importante dentro se stessi. La tesi di fondo è che se ci accorgessimo che il cielo sconfina con bellezza sulla terra vivremmo molto meglio la terra e le nostre relazioni. Credo che analoghe considerazioni potremmo farle per l’intelligenza artificiale. Il portato della Bibbia, il codice dei codici, può aiutarci a vivere pienamente e con speranza questo tratto della storia così tanto segnato dal codice delle macchine.

Parlando di un’umanità senza Cristo, Leone ha detto che ricade nel piacere, nel potere e ha citato anche la tecnologia. Anzi la mette proprio per prima: «Si preferiscono tecnologia, denaro, successo, potere, piacere». A quale rischio si riferisce, secondo lei?

Il rischio è quello di una escatologia tecnologica, di una sorta di idolatria della macchina, di una delega all’oggetto di quanto è proprio del soggetto. Un esempio ci può aiutare a comprendere. Di recente Mark Zuckerberg, amministratore delegato di Meta, ha dichiarato che viviamo in un mondo in cui le persone non hanno amici. La sua soluzione alla solitudine dei nostri contemporanei è quella di chattare con un bot.

La soluzione della Chiesa?

Guardi, Cristo ci riporta all’autenticità dell’umano, che è relazione, generazione, fragilità e comunione. Il silicio del digitale serve, certo. Ma non serve se asserve disumanizzandoci.

E l’Ai?

L’intelligenza artificiale è una tecnologia che conferisce particolare potere e poteri. È un forte strumento di ordine e considerando che, veicolata dai nostri smartphone, abita buona parte della nostra vita, può essere utilizzata per ulteriormente polarizzare, scavare fossati, creare ingiustizie. Già un tempo si disse che l’homo sapiens è diventato homo ludens, oggi homo videns. L’accento di papa Leone è sul fatto che l’essere umano non diventi incapace di pensare. Dunque di scegliere, dunque di essere libero.

Questo è un pontefice missionario, l’Ai potrebbe anche essere uno strumento di nuova evangelizzazione e promozione umana? 

Certamente. Può essere un mezzo di promozione umana nella misura in cui càpacita l’umano, è strumento di giustizia, permette un migliore perseguimento del bene comune. Che sia strumento di annuncio in sé e per sé mi pare più difficile. Il digitale lo è, l’intelligenza artificiale in sé mi pare meno evidente.

Perché?

Perché l’evangelizzazione è in definitiva, la trasmissione di una passione per l’incontro con la persona di Cristo. Non è la trasmissione di una informazione, ma di una esperienza esistenziale. Ha bisogno di carne e sangue più che di computazione ed esattezza numerica. L’amore si mostra, non si dimostra con formule algebriche. L’intelligenza artificiale non può fare tutto. Ma è una buona notizia.

Sottoscrivo. Senta, ma qualcuno paventa già rischi di oscurantismo: «I soliti cristiani timorosi del nuovo». Come risponde?

È un rischio vero, perché navighiamo tutti tra Scilla e Cariddi, tra entusiasmo cieco e paura irrazionale. Il timore dei cristiani non è nel nuovo, ma nel sin troppo vecchio umano. La tecnologia in sé è un concetto, l’intelligenza artificiale quasi uno slogan. Esistono invece i sistemi di intelligenza artificiale progettati, usati ed applicati da persone concrete. Quelle stesse che ieri ed oggi, chissà domani, sono segnate da egoismo, paura, chiusure, divisioni. I cristiani temono il male, papa Prevost ha cominciato il suo ministero dicendo però che il Male è stato sconfitto alla radice. I cristiani, e non solo loro, dovrebbero guardarsi dal male anche nel silicio. E poi, certamente, puntare al bene, al bene maggiore. Mi si lasci chiosare dicendo che i cristiani autentici non sono pessimisti, non possono esserlo, perché Cristo è risorto. Un cristiano che sia oscurantista sul serio, non tacciato di esserlo, forse tanto cristiano non è.

È un caso che diversi religiosi, tra cui lei e padre Paolo Benanti, siate apprezzati esperti di questa materia?

Mi fa sorridere il fatto che Paolo ed io ci siamo conosciuti a Torino in occasione di una iniziativa organizzata cinque anni il cui titolo era Rerum Futura, facendo il verso proprio alla Rerum Novarum di Leone XIII. Lo Spirito Santo ama giocare anche con le parole. Alcuni tra noi, come padre Benanti che lei cita, sono studiosi apprezzati che portano un contributo importante. Io mi limito a fare divulgazione.

Lei continua a restare umile, come diceva il post di Linkedin…

Credo che una formazione teologica possa essere oggi a servizio del mondo proprio perché l’intelligenza artificiale è una ambiente ed una cultura che tocca l’umano. Vorrei aggiungere una cosa…

Prego.

Che la Santa Sede, rispetto ad altre istituzioni, ha un grande vantaggio che oggi può essere a servizio di tutta l’umanità. Il Papa, ormai tra i pochi, può convocare il meglio del mondo per dialogare e costruire un pensiero solido e provato che aiuti tutti ad avere e prendere una direzione autenticamente umana. La parola “chiesa”, in greco, significa comunità radunata. La Chiesa radunata può radunare, per un futuro, come amava dire papa Francesco, umano. Con le macchine, ma a servizio della vocazione umana. Di tutti, ovunque.


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La passeggiata spaziale ha mostrato che la luce può riempire l'oscurità

 Sessant’anni fa l’essere umano passeggiò per la prima volta nello spazio. Aleksej Leonov fu scelto dalla nomenklatura sovietica perché sapeva rischiare, aveva coraggio, perizia, desiderio e fermezza

Sessant’anni fa l’essere umano passeggiò per la prima volta nello spazio. La mattina del 18 marzo 1965 Aleksej Leonov, a bordo della Voschod 2, uscì nel vuoto cosmico unicamente protetto dalla tuta spaziale. «Quello che mi colpì di più fu il silenzio. Era un grande silenzio, diverso da qualsiasi altro avessi mai incontrato sulla Terra, così vasto e profondo che iniziai a sentire il mio stesso corpo: il battito del cuore, il pulsare dei vasi sanguigni, persino il fruscìo dei muscoli che si muovevano l’uno sull’altro sembrava udibile. C’erano più stelle nel cielo di quanto mi aspettassi. Il cielo era di un nero profondo, eppure allo stesso tempo brillante di luce solare». Si era in piena guerra fredda e lo spazio era il luogo per dimostrare la superiorità tecnologica e scientifica dei rispettivi sistemi. Dopo il volo di Gagarin nel 1961, la prima passeggiata spaziale rappresentava un altro traguardo fondamentale. Il momento clou avvenne 90 minuti dopo il decollo, alle 8 e 34 minuti, quando Leonov, legato a una corda lunga 5,35 metri, uscì dall’abitacolo facendo entrare il suo nome nei libri di storia.

«Quando mi voltai a guardare la Terra, capii che la mia vita non sarebbe mai più stata la stessa». La durata complessiva dell’attività extraveicolare fu di 12 minuti e 9 secondi. Se l’uscita fu facile, non altrettanto il rientro, complicato dalla tuta che si era gonfiata come un pallone. Leonov dovette sfiatare parte dell’ossigeno per ridurne l’ingombro, rischiando però una embolia. Lo stupore fu più grande della paura: «In quei minuti mi sentii come un gabbiano con le ali dispiegate, che si staglia in alto. Ero pienamente concentrato, con il sangue freddo e, relativamente, non eccitato. Ma la vista fu straordinaria: le stelle non brillavano, era tutto fermo, tranne la Terra». «L’umanità intera aveva compiuto un passo al di là del suo pianeta – disse in seguito –. Ero solo il tramite di un sogno collettivo .

Leonov, pittore dilettante, non mancò di fare un commento artistico: «La Terra era assolutamente rotonda. Credo di non aver mai saputo cosa significasse la parola rotonda finché non ho visto la Terra dallo spazio». Soleva dire che solo quando si è lassù si percepisce la grandezza di ciò che ci circonda. Oggi la corsa allo spazio è ripresa, con nuovi orizzonti e identiche questioni geopolitiche. L’avventura di quei primi tempi è ancora in grado di parlare al nostro cuore? Silenzio, consapevolezza, bellezza, perfezione, meraviglia, contemplazione. Benché siano passati sei decenni e immagini più spettacolari ci abbiano toccato, le semplici parole del racconto di Leonov ci fanno ancora pensare e sognare.

L’aiuola che ci fa tanto feroci, come scrisse Dante, potrebbe sicuramente essere quel diverso giardino evocato in Genesi se solo dedicassimo più tempo alla meraviglia a cui siamo esposti ogni notte. Una meraviglia che educa al Meraviglioso che ce la dona, al meraviglioso che l’altro da noi segretamente nasconde. La passeggiata di Leonov ci invita a nuovamente passeggiare in qualche silenzio, contemplare l’armonia di cui siamo circondati, i punti fissi di luce laddove distrattamente vediamo solo nero. Leonov fu scelto dalla rigida nomenklatura sovietica perché sapeva rischiare, aveva coraggio e perizia, desiderio e fermezza. Pur sacrificabile, scelse di esserlo. Per portare l’umanità un passo oltre il suo confine. Un buon esempio in tempi in cui sentiamo il bisogno di donne e uomini che costruiscano speranza rischiando sé stessi.


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In cosa credono i giovani? Dalla ricerca del sacro alla ricerca di sé

giovedì 27 marzo 2025, ore 14-17

Aula C2 Campus Luigi Einaudi | Lungo Dora Siena 100 A - Torino

In cosa credono i giovani? Dalla ricerca del sacro alla ricerca di sé

Dibattito a partire dalla presentazione del volume a cura di Paola Bignardi e Rita Bichi, “Cerco, dunque credo? I giovani e una nuova spiritualità”

Partecipano Paola Bignardi, Rita Bichi, Carlo Genova, Luca Peyron, Roberto Francesco Scalon

Ciclo di incontri “Religioni nel libro” organizzato da Università di Torino – Dipartimento di Giurisprudenza, Dipartimento di Culture, Politica e Società e CRAFT, Centro Interdipartimentale di Scienze Religiose, Biblioteca Norberto Bobbio

Qui per maggiori informazioni 

Luca Peyron, indispensabile il dialogo tra scienza e fede

 Il teologo appassionato astronomo a Fiera del Libro di Taipei


Indispensabile il dialogo tra scienza, fede e tecnologia per Luca Peyron che su questi temi ha uno sguardo originale.

Giurista, teologo, sacerdote diocesano, coordinatore degli aspetti culturali e pastorali di Spei Satelles, la prima missione spaziale nella storia della Chiesa Cattolica, lo mostra nel suo libro Cieli Sereni, pubblicato da Edizioni San Paolo nel 2023, che ha venduto 5 mila copie e ha avuto quattro ristampe, di cui è in arrivo il seguito Sconfinato.

Al centro di tutto c'è il cielo "che dovrebbe abitare di più la vita delle persone" dice all'ANSA Peyron tra gli ospiti della delegazione italiana alla Fiera del Libro di Taipei, dal 4 al 9 febbraio, dove l'Italia è Paese Ospite d'Onore.
    "Taiwan è uno dei centri mondiali più importanti per la produzione di tecnologia. È il luogo in cui nasce fisicamente la tecnologia che tutti utilizziamo. Un posto iconico. Parlare di questi temi qui è come andare alla sorgente di ciò che ci circonda. Farlo con il paese di cui faccio parte per me è un motivo di restituzione" spiega Peyron che è cappellano del Politecnico, insegna Teologia digitale alla Cattolica di Milano e fa catechesi con i meteoriti.
    "La tecnologia deve custodire l'umano. 'Cieli sereni' è un diario della nascita e della mia passione di astro fotografo e di come incontrare galassie e pianeti mi faccia rileggere la fede con categorie diverse che per me sono diventate un linguaggio per annunciare in modo diverso il mistero di Cristo" racconta del suo sesto libro. Annuncia anche: "con la Fondazione Matrice, grazie ai fondi del Pnrr e con l'aiuto di Fondazione Crt abbiamo un progetto per costruire il primo telescopio solare ad uso delle scuole mettendo insieme insegnati di lettere, scienze, religione in maniera multidisciplinare. Il tema dello spazio unisce tantissimo, apre orizzonti e smonta incomprensioni". La fede, continua "ci da una serie di obiettivi, la scienza ci da la capacità di raggiungerli. La scienza non spiega Dio, spiega la realtà, ma nello spiegare la realtà mostra l'opera di Dio. Gesù fa il falegname, è il costruttore di tecnologia. Ma che tipo di tecnologia è quella che costruisce? Una tecnologia per la cura: la culla, il tavolo, la sedia" spiega. Oggi che la tecnologia è così potente dovrebbe, secondo il teologo, "incorpora un elemento di cura.
    Basta pensare ai social media che possono essere strumento che crea dipendenza o che crea indipendenza".
    Peyron collabora anche la Fondazione Nazionale per l'Intelligenza Artificiale che ha sede a Torino. "Ho animato il processo che la ha portata ad esistere. L'Ia - dice - è una cultura, un ambiente e quindi cambia i rapporti umani, il dato antropologico, l'identità. È una tecnologia ecologica, non nel senso che non consuma energia, ma che se la introduci in un ambiente cambia il colore di quell'ambiente, come una goccia di colorante in una bottiglia d'acqua. Se io introduco una tecnologia così trasformativa nella vita dell'essere umano voglio che questo renda l'umano sempre più umano, non sempre più vicino alla macchina". Può, si chiede Peyron, l'IA essere al servizio di una maggiore umanizzazione? Può essere una componente vocazionale, permettermi di essere più umano? Può essere al servizio delle relazioni per renderle più autentiche? "È una tecnologia capace di inglobare valori, governata da persone, l'obiettivo che tutti dovremmo avere e che dovrebbe essere perseguito da chi disegna Intelligenza Artificiale, soprattutto generativa e complessa. La macchina deve avere anche uno scopo sociale-umanistico. Non posso fare un algoritmo senza considerare le conseguenze antropologiche e psicologiche. Posso usare la macchina per pensare meglio ma non per non pensare più" dice convinto Peyron.
    Quando uscirà il nuovo libro, Sconfinato? "Ad aprile, sempre Edizioni San Paolo. L'idea di fondo è che la terra potrebbe essere più bella se lasciassimo che il cielo sconfinasse un po' di più. Partendo dal presupposto che Cristo è lo sconfinato per definizione" annuncia il teologo.

 

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Il trumpismo dilaga nei social network che tolgono le protezioni anti fake news. La libertà ha un prezzo

Dopo X anche Facebook e Instagram eliminano le protezioni anti fake news in nome della libertà d’espressione. Il “trumpismo” dilaga. Ne parliamo con due esperti, don Luca Peyron (Torino) e Giovanni Tridente



La storia del rapporto – non sempre specchiato per dirla con un eufemismo – tra social media e politica passa tra due post pubblicati esattamente a quattro anni di distanza l’uno dall’altro nella stessa pagina: quella del fondatore di Facebook Mark Zuckerberg. Il primo post, datato 7 gennaio 2021, arriva all’indomani del tentato colpo di stato a Capitol Hill, con l’invasione del Congresso americano a Washington. «Negli ultimi anni – scriveva – abbiamo permesso al presidente Trump di usare la nostra piattaforma secondo le nostre regole, a volte rimuovendo contenuti o etichettando i suoi post quando violavano le nostre policy. Ora il contesto è fondamentalmente differente», e ne annunciava il blocco. Il secondo post è del 7 gennaio 2025, all’indomani della – questa volta pacifica – certificazione dei risultati elettorali che vedranno Trump reinsediarsi alla Casa Bianca lunedì 20 gennaio. Si tratta di un video in cui Zuckerberg bacia la pantofola del trumpismo e si accoda alla filosofia del patrono di X fu Twitter Elon Musk, secondo il quale la libertà di espressione è un valore assoluto, anche a costo di ammettere hate speech (linguaggio d’odio), fake news (propaganda). Zuckerberg ha annunciato non solo che licenzierà i fact-checkers indipendenti (accusati di partigianeria politica), ma il loro rimpiazzo con un sistema di “note della comunità”, riferendosi espressamente a quelle implementate su X. In coda lo spostamento del team di moderazione per gli Stati Uniti dalla California democratica al Texas repubblicano e una promessa di lavorare con Trump per imporre ai governi in tutto il mondo la stessa libertà di espressione, scagliandosi anche contro le recenti regolamentazioni volute dall’Unione Europea a tutela dei cittadini. Di salto «sul carro del vincitore» scrive Gigio Rancilio su Avvenire. Se a novembre padre Paolo Benanti pubblicava Il crollo di Babele. Che fare dopo la fine del sogno di Internet?, ora sono le macerie stesse di quel sogno ad andare a fuoco. Ma già da oltre un decennio si parla dei pericoli del “feudalesimo digitale”, un cambio di paradigma rispetto al web decentrato delle origini e delle utopie degli anni Novanta, che vede pochi e potentissimi operatori privati gestire un potere economico – e anche politico – più grande persino degli Stati e delle comunità internazionali, rinunciare apertamente a ogni responsabilità sociale delle loro piattaforme, accettandone invece i guadagni e le influenze.
Don Luca Peyron, fondatore del Servizio per l’apostolato digitale dell’Arcidiocesi di Torino, non è sorpreso: «Il digitale è uno strumento di potere e va a braccetto con il potere». L’annuncio di Zuckerberg non è che l’ennesima dimostrazione di come i colossi tecnologici abbiano assunto una posizione dominante pressoché assoluta, grazie a scelte strategiche e geopolitiche che li hanno resi indispensabili. Tuttavia, don Peyron sottolinea una realtà ancora più inquietante: «Il re è talmente sicuro di sé da non avere più paura di dire di essere nudo». La convinzione che non ci siano alternative a queste piattaforme rischia di trasformarsi in una forma di sudditanza collettiva. Giovanni Tridente, docente alla Pontificia Università della Santa Croce, concorda sul fatto che il problema principale non sia la tecnologia in sé, ma l’impreparazione degli utenti. «Da quando esistono i social, ci siamo concentrati sui rischi e sui problemi, ma non ci siamo occupati di educare all’uso consapevole di questi strumenti». Questa carenza educativa, unita alla velocità con cui le piattaforme evolvono, ha creato un divario cognitivo che amplifica le disuguaglianze: da un lato, chi utilizza il digitale per crescere e innovare; dall’altro, chi rimane intrappolato in un flusso costante di contenuti superficiali. Secondo don Peyron, la chiave per uscire da questo circolo vizioso è riprendere in mano il concetto di responsabilità. «La libertà ha un prezzo. I nostri nonni lo sapevano bene, perché per ottenerla hanno sacrificato la vita. Oggi, invece, pretendiamo che sia gratis». Questa illusione di gratuità — alimentata da modelli di business che monetizzano i dati degli utenti — non solo mette a rischio la nostra autonomia, ma ci rende complici di un sistema che privilegia il profitto rispetto al bene comune. Tridente invita a non farsi distrarre dalle polemiche di facciata. «Il fine di Zuckerberg non è la libertà, ma il profitto. La storia delle sue aziende dimostra che cavalca qualunque filone sia economicamente vantaggioso». Questo non significa, però, arrendersi al pessimismo. Al contrario, Tridente propone un approccio costruttivo: «Dobbiamo alfabetizzarci rispetto a questi strumenti, sviluppando anticorpi educativi e comunità in cui discutere delle loro implicazioni. Non possiamo aspettarci che siano le piattaforme a risolvere i problemi che loro stesse hanno creato». Contro il feudalesimo digitale, conclude don Peyron, «abbiamo il dovere di mostrare ai giovani che altre strade sono possibili».
In un panorama a tinte fosche è possibile dare un segnale anche come cristiani
A ovest Zuckerberg e Musk alla corte di Trump. A est Tik Tok, i suoi algoritmi e il legame con Pechino. Al centro l’Europa, senza “campioni” digitali, senza Internet satellitare (per ora), ma con i suoi regolamenti per la protezione degli utenti che le Big Tech vorrebbero abbattere. All’uscita di Zuckerberg un portavoce della Commissione Europea ha ricordato che «la libertà di espressione è al centro del Digital Services Act (Dsa)», regolamento che contrasta i contenuti illegali. «Nessuna disposizione del Dsa obbliga gli intermediari online a rimuovere i contenuti leciti», precisa Bruxelles, ma è ovvio che il vero scontro sarà sui segreti degli algoritmi, in grado di “spingere” contenuti graditi e “nascondere” quelli sgraditi ai loro padroni e alle loro priorità. Sarà insomma più difficile contrastare forme di interventi per manovrare l’opinione pubblica, come quelli – denunciati dalla Corte Costituzionale rumena – che hanno fatto vincere il primo turno delle presidenziali – poi annullate – a una “sorpresa” filorussa, che hanno fatto anche tanto ricorso alla potenza dell’intelligenza artificiale? Per Giovanni Tridente la strada rimane quella della formazione: «L’Intelligenza artificiale è un’ottima opportunità per ridurre le disuguaglianze, non per aumentarle, se messa a disposizione di tutte le società, non solo di quelle avanzate. Ma si realizza solo anzitutto con la consapevolezza e poi con l’alfabetizzazione». Per don Luca Peyron, poi, i cristiani possono dare testimonianza di unità in un mondo frantumato: «Soprattutto su questi temi dobbiamo essere sempre più in comunione. Abbiamo bisogno della diversità dei carismi: è il segnale forte che ci sta dando papa Francesco. La parola sinodalità significa camminare insieme».
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