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Nell’IA “antropocentrica”, l’umano dov’è? Qualche risposta

 Abbiamo speso dieci miliardi di dollari per mandare nello spazio un nuovo telescopio per vedere chiaro nel nostro passato remoto, e abbiamo fatto bene. Ma quanto siamo disposti a spendere perché l’uomo non usi semplicemente dei sistemi di AI, ma usandoli diventi più italiano, più europeo, più umano?



Dopo 30 anni di lavori, ripensamenti e rinvii, il più grande telescopio della storia, il James Webb, ha preso il volo il 25 dicembre 2021 alla volta dello spazio profondo. Uno strumento che ci permetterà di vedere il nostro passato stellare con la lente dell’infrarosso.

Abbiamo speso dieci miliardi di dollari per mandare nello spazio un nuovo telescopio per vedere chiaro nel nostro passato remoto, e abbiamo fatto bene. Ma, a questo punto, dobbiamo porci, finalmente, una domanda cruciale, scientifica, tecnica e politica: cosa davvero significa evocare – come sempre più si sta facendo – l’umano nella corsa alle nuove tecnologie? Un’intelligenza artificiale antropocentrica, rispettosa dell’umano, congruente con i suoi scopi, cosa significa?

L’essere umano e l’artificialità

La corsa allo spazio nacque come prova muscolare ai tempi della guerra fredda, ed ancora oggi essa rappresenta per alcuni aspetti una prova muscolare di carattere geopolitico ed economico, ma resta ugualmente una corsa avvincente vero il cuore di noi stessi. In “Oralità e Scrittura” Walter Ong scrisse: “Le tecnologie sono artificiali, ma – di nuovo il paradosso – l’artificialità è naturale per gli esseri umani”. L’artificialità è uno dei modi con cui ci diciamo umani e di tanto in tanto fa bene ricordarci che essa ha come scopo primario uscire da noi stessi per poter meglio guardare, anche da fuori, chi davvero siamo. Usiamo la tecnologia per non farci schiacciare dalla natura, e il covid ci ricorda che la partita non è mai finita, ma la usiamo anche per guardare nella natura e scoprirla sempre nuova, avvincente, misteriosa. Soprattutto la nostra natura, quella umana.

La strategia italiana per l’intelligenza artificiale

Anche in questa prospettiva il “Programma Strategico Intelligenza Artificiale 2022-2024” del Governo italiano, di cui molto si è scritto in queste pagine, è una buona notizia. Il tema dell’umano torna a più riprese, posto sostanzialmente a salvaguardia della tecnica, come limite, argine, orizzonte. Ma, come abbiamo già detto, questo cosa vuol dire, in concreto?

I due grandi vettori di senso del programma italiano

Il programma del governo ha due grandi vettori di senso: la ricerca fondazionale e lo scivolo concreto ed industrializzabile della tecnologia inventata e prodotta. Sul tema dell’umano al centro, affinché non sia una delle tante etichette che usiamo per non dire nulla se non tranquillizzare il cittadino/elettore/investitore, cosa pensiamo di poter e voler fare? Nel programma non ci sono indicazioni più precise, ma devono essere trovate nel suo sviluppo. Devono essere trovate in termini di ricerca fondazionale innanzitutto. In regime di risorse scarse la ricerca è purtroppo perennemente in lotta con sé stessa. Non è una novità che nei nostri dipartimenti universitari si giri con la colt carica sotto il tavolo o, se preferite, con il coltello tra i denti. Gli accademici sono belle e non brutte persone, ma sono spesso costretti a mendicare fondi e a doverli difendere dai predatori, che altri non sono che altri accademici ugualmente affamati. Mi si perdonerà l’immagine alla Kipling, ma con un sorriso credo che tutti noi la possiamo condividere. Aleggia il rischio, dunque, di dover dire: figuriamoci se possiamo e dobbiamo trovare dei soldi per fare filosofia, teologia, antropologia sull’Ai!

AI antropocentirca, ma l’umano dove lo mettiamo?

Codice, codice, mica codici, miti, letteratura. Sul versante produttivo valgono uguali considerazioni: di fatto compriamo AI dall’estero, compriamo semilavorati che poi finalizziamo noi. Non è del tutto vero, ma resta evidente il divario tra l’Europa, non solo il nostro Paese, ed il resto del mondo. Non mi dilungo, ne abbiamo tutti contezza. Il programma, dunque, non può che andare in questa direzione mettendo in filiera università, fabbrica e mercato. Giusto, auspicabile. Ma nuovamente fatemi fare la domanda da grillo parlante: l’umano dove lo mettiamo? Al fondo del processo? Ci accontentiamo di un codice dei consumi? Ci concentriamo sui dati? Privacy, trattamento, conservazione e basta? Ci affanniamo per i bias puntando i riflettori su quelli razziali o di genere e così “facciamo pace” con la coscienza? Ovviamente sono temi decisivi, ma non esauriscono il tema, perché sono problemi, alcuni tra i molti, tra quelli che conosciamo, aspettando di scoprire quelli che ancora non conosciamo, non abbiamo visto. Ma sono problemi, non opportunità!

Un sistema preventivo anche per l’AI

La tecnica emergente ci dà l’occasione di conoscere di più noi stessi, di aggiornare la nostra capacità di responsabilità, di essere pienamente umani e sempre meno strumenti ed utensili della nostra semplice sopravvivenza. Don Bosco per far fiorire tutto questo usava un’espressione meravigliosa: sistema preventivo. Ha salvato, e vivendo nei suoi successori, salva e fa fiorire migliaia di giovani, in tutto il mondo, con questa semplice ma decisiva locuzione su cui è stata costruita tutta una pedagogia. Ci vuole un sistema preventivo anche per l’ai. Non una briglia, il sistema preventivo non è un codice di regole e procedure. Per don Bosco il sistema preventivo è che al giovane viene offerto un ambiente nel quale è incoraggiato a dare il meglio di sé, nel riconoscimento dei propri talenti e dei propri limiti, nel rispetto degli altri e scoprendo la propria vocazione. L’ai è una manifestazione del fare umano e gli dà una forma precisa a cui il sistema preventivo è applicabile!

Gli elementi essenziali del sistema sono: l’accoglienza incondizionata dell’altro come dono di Dio; la presenza effettiva dell’educatore tra i giovani e la condivisione di parte della loro vita quotidiana e di qualche loro interesse; la certezza che «in ogni giovane c’è un punto accessibile al bene»; l’uso costante della ragione, che significa ragionevolezza delle richieste e delle norme e personalizzazione del rapporto educativo; il riferimento alla religione, condividendo con i giovani l’annuncio di Gesù e del suo messaggio di salvezza, attraverso azioni, parole e proposte concrete; il tratto della amorevolezza, che si esprime nell’attenzione ai bisogni reali delle persone e nella cura di un ambiente accogliente; il coinvolgimento del giovane come primo responsabile e protagonista della propria formazione.

Conclusioni

Quanto siamo disposti a spendere per mandare nel futuro questo paese in un modo tale che ciascuno dei suoi cittadini non usi semplicemente dei sistemi di AI, ma usandoli diventi più italiano, più europeo, più umano? Abbiamo davvero di meglio a cui pensare? Un budget, un paper, un prodotto? Per chi? Torniamo a riveder le stelle?

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Cristianesimo e intelligenza artificiale: quale nesso tra fede e tecnologia

 Quando si parla di etica dell’intelligenza artificiale, questo significa l’onestà e la chiarezza nel definire non solo quello che l’AI è, ma anche quello che non è e che non sarà. Un’etica che comporti una tecnologia che generi inclusione e comunione. Ma come si collega l’AI e la Bibbia?

 

Il binomio Cristianesimo e intelligenza artificiale si riferisce a un argomento che non può essere contenuto nelle poche righe di questo contributo, ma rivela – il verbo è scelto – l’esistenza di un nesso attendibile dal punto vista credente e culturale tra la fede in Gesù Cristo e l’intelligenza artificiale.



Dobbiamo partire dall’inizio: in teologia ciò che è affermabile di Dio e segnatamente di Cristo, deve fare sempre i conti con la Scrittura, essa rappresenta il vincolo di ortodossia di ogni ragionamento e ipotesi articolabile. Dal punto di vista epistemologico non deve stupire questo atteggiamento: ogni scienza nasce da alcuni a priori, da assiomi che la fondano. La teologia non si distingue in questo. Dobbiamo quindi indagare se esista nella Scrittura un nesso tra quanto è di Cristo e quanto noi sappiamo rispetto all’intelligenza artificiale o, per meglio favorire la comprensione, più in generale rispetto alla tecnologia.

 

La Bibbia e le intelligenze artificiali

È importante notare come nella Bibbia, a differenza di altre tradizioni religiose, non vi sia alcun accenno a intelligenze artificiali, manufatti pensanti o a robot. A differenza della mitologia greca (Prometeo, Pandora, Talos, gli androidi dell’Iliade e dell’Odissea), di quella ebraica (Golem) o di quella cinese taoista (Libro del Vuoto Perfetto) non c’è traccia di una tecnologia che sostituisce l’essere umano, di una tecnologia post umana. Ma vi è invece tanta tecnologia, tantissima, ed in momenti e ruoli strategici. Il punto centrale della vicenda divino-umana di Gesù è, come sappiamo, la sua morte di croce a cui fa seguito la risurrezione. È la Pasqua cristiana, il passaggio dalla morte alla vita che si innesta nella Pasqua ebraica che ricorda il passaggio dalla schiavitù d’Egitto alla vita nella terra promessa. In entrambi i casi la tecnologia è sullo sfondo, nel senso che letteralmente è il foglio sopra il quale si “scrive” la salvezza. Nella Pasqua ebraica l’angelo sterminatore, che conclude le piaghe d’Egitto, risparmia e dunque salva quelle famiglie la cui porta – tecnologia – è cosparsa del sangue dell’agnello del sacrificio. Sarà il sangue di un altro agnello sacrificale, Cristo, che salva tutta l’umanità da ogni forma di male distruggendo il peccato, quel sangue è sparso su di una croce, nuovamente una forma di tecnologia.

La tecnologia e l’insegnamento di Cristo

Cosa possiamo leggere in questi segni? Che la vita piena dell’essere umano nasce dall’alleanza tra Dio e l’essere umano anche là dove egli si esprime tecnologicamente, nella sua cultura tecnologica. A rafforzare questa tesi è lo stesso mestiere di Cristo che, figlio del falegname è falegname egli stesso. Il termine greco usato nei vangeli è anche più che falegname: è carpentiere, scalpellino, artigiano: un ventaglio semantico che raccoglie tutti i mestieri che al tempo di Gesù erano i mestieri tecnologici. Non possiamo in questa sede che fermarci qui e dire che il cristianesimo, sin nella vita di Colui che ne è il fondamento, ha un legame con le tecnologie e con il senso che esse possono rappresentare. Tornando dunque all’intelligenza artificiale ed il suo rapporto con il Cristianesimo possiamo qui sottolineare un aspetto fondativo che si desume dall’insegnamento e dalla vita concreta di Cristo.

La condizione per essere suoi discepoli Gesù la esplicita così: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Colui che decide di seguire Cristo sceglie un distacco dalla propria vita che dovrà mantenere nel concreto e nel corso dell’esistenza sino all’ineludibile morte. Questo atteggiamento garantisce la vita eterna nel futuro, un perdere per acquistare dunque, ma per un bene che si consuma nella storia. Brevemente il significato della pericope, soprattutto nel Vangelo di Marco sta a dire: Cristo ha portato un messaggio di riconciliazione tra Dio e l’umanità e per l’umanità, affinché viva una fratellanza ed una comunione piena. Questo messaggio è osteggiato e sempre lo sarà nella storia perché nella divisione tra Dio e l’essere umano e tra gli esseri umani tra loro ci sarà chi ne trarrà vantaggio. Quindi essere discepoli significa spendere la propria vita affinché personalmente e come umanità vi possano essere le condizioni di comunione tra l’essere umano e Dio e, a partire da questa comunione fontale che sostiene nell’amore e nella pace, vi possa essere comunione degli esseri umani tra loro.

Quale etica per l’intelligenza artificiale

Costi quello che costi, anche la vita, come dimostra la storia di sempre in cui i cristiani sono la categoria sociale più perseguitata e che paga il più alto prezzo di sangue, sia ieri sia purtroppo anche oggi. Quale etica dell’intelligenza artificiale ne consegue? Un’etica che comporti una intelligenza artificiale che generi inclusione e comunione. Una potenza computazionale che è servizio, che non diventi un idolo a cui asservire ogni attività umana. Un’Ai per l’uomo che non esclude l’umano, un’AI che resta mezzo e non diventa fine, uno sviluppo ed una ricerca che siano antropici – cioè custodi dell’umano anche nella sua integrità. La cristologia richiama anche la comunione con Dio che non può essere confusa con una generica comunione con un tutto cosmico o che si sublima nella comunione con l’umanità. Rispetto all’etica dell’AI questo significa l’onestà e la chiarezza nel definire non solo quello che l’AI è, ma anche quello che non è e che non sarà. In un clima mistico religioso in cui si confonde spesso la materia con il trascendente e l’immateriale con il metafisico, urge dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.

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Professione “antronomo”: una nuova figura per mettere l’umano al centro dell’intelligenza artificiale

Chi si occuperà di attuare concretamente le procedure indicate nella via europea, antropocentrica, all’intelligenza artificiale? Servono senz’altro nuove professionalità e, tra queste, quella dell’antronomo, una persona che pone l’umano come norma all’interno di un processo di innovazione ed in una condizione digitale.

L’Europa ha una sua via all’intelligenza artificiale, o perlomeno ci prova. Il dibattito su questo tema ha trovato dal rilascio della proposta della Commissione Europea anche su questo portale diversi interessanti contributi. Al di là delle posizioni differenti, più critiche o più entusiaste, è piuttosto evidente che la via europeaantropocentrica, suppone e presuppone nuove e diverse strategie e organizzazioni non tanto o non solo della ricerca, ma soprattutto dello sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale e de relato, in qualche modo, anche di tutte le altre tecnologie emergenti.

La via europea all’AI

L’approccio adottato, basato su diversi livelli di rischio, fa presupporre un futuro sistema di certificazioni di tali rischi effettivi e una filiera di imputazione di responsabilità a livello nazionale e internazionale con relativi ruoli, obblighi e poteri di enti pubblici e privati. La proposta di regolamento richiede una dichiarazione di conformità e la marcatura CE prima del lanciare un sistema di intelligenza artificiale ad alto rischio, nonché un monitoraggio a lungo termine fino alla fine del ciclo di vita del sistema.

Chi, concretamente, si occuperà di queste procedure?

La proposta della Commissione, che è l’ultimo atto in ordine di tempo di una catena che man mano sta disegnando questo settore, rappresenta una novazione anche rispetto alla necessità di nuove figure professionali, di nuove ibridazioni di saperi e, dunque, di nuove filiere formative ed educative del tutto peculiari. Il mondo che ci apprestiamo a vivere, digitale, sarà ed è già diverso da quello che abbiamo conosciuto, non torneremo al noto di prima. Non sarà un futuro necessariamente peggiore o migliore, sarà certamente diverso. Soprattutto in un aspetto: la gran parte delle relazioni – sociali o economiche, affettive o politiche – avverranno e già avvengono attraverso la mediazione di un sistema digitale. Lo scambio di ieri è oggi e sarà domani soprattutto uno scambio di informazioni, di dati. Questo è, di fatto, il cuore della condizione digitale, della civiltà digitale. Tale semplice operazione rende qualunque operazione che usa un medium tecnologico una operazione a contenuto di valore: valore numerico, valore economico, valore sociale, valore etico e morale. Questo fa presupporre che abbiamo bisogno sempre di più non di meri tecnici, ma di tecnici a valore aggiunto: numerico, economico, sociale, etico e morale. In questa prospettiva desidero portare all’attenzione del lettore e degli operatori, nonché a coloro che hanno in mano le redini della formazione dei nostri giovani, l’opportunità di creare e disegnare tale nuova professionalità e il quadro più generale in cui essa si possa collocare.

Chi è l’antronomo

Stiamo parlando dell’antronomo e dell’antronomia. Il neologismo che abbiamo coniato con alcuni amici ed esperti di settore è di derivazione greca e sta a significare una persona che pone l’umano come norma all’interno di un processo di innovazione e in una condizione digitale. In altri termini è un professionista che attinge da competenze trasversali di vari saperi e scienze e li applica affinché una innovazione tecnologia soprattutto digitale possa essere a servizio dell’umano e delle sue istanze, possa in altri termini essere una innovazione antropica. L’antronomo risponde esattamente alle esigenze e le istanze che la via europea propone e chiede. Insieme all’Equipe dell’Apostolato Digitale e ad alcune università e istituti superiori, stiamo lavorando per calare nel concreto questa intuizione disegnando dei corsi di scuola superiore e di laurea magistrale afferenti a differenti discipline che abbiano al loro interno, oltre alle materie proprie di tali discipline, anche un bagaglio di conoscenze tali per cui al professionista sia data la possibilità di interagire con coloro che più direttamente disegnato e progettano sistemi di intelligenza artificiale o più in generale tecnologie emergenti legate alla trasformazione digitale.

I corsi legati alla figura dell’antronomo debbono conferire agli studenti, oltre alle conoscenze scientifiche necessarie, ad esempio, a essere psicologo o infermiere o architetto, anche quelle conoscenze di base sulla trasformazione digitale indispensabili per dialogare con informatici, aziendalisti, ingegneri, fisici che progettano e realizzano innovazione digitale.

L’antronomia nel suo complesso sarà dunque non propriamente una scienza a sé, ma una visione dei saperi legati all’innovazione capace di tenere insieme saperi e valori, di implementare i valori attraverso specifici saperi non giudicando a valle l’esisto di un processo di innovazione, ma partecipandovi da subito, ponendosi a monte di tale processo e conferendo quelle conoscenze necessarie affinché il prodotto o servizio non sia semplicemente conforme a una normativa o adatto a essere utilizzato da un essere umano o, ancora più semplicemente, funzionale a un determinato scopo produttivo ed economico, ma – rispondendo alla mens della normativa europea – propriamente antropico, capace cioè non solo di non nuocere all’essere umano ma di favorirlo, negli scopi legati a quella determinata tecnologia che si sviluppa, ma anche e più in generale a un ecosistema di tecnologie che incorporando una dimensione valoriale collaborino a fare di quei valori la cultura e la vita delle persone ogni giorno.

Conclusioni

Mettere l’umano al centro, così come spesso si ripete trattando di questi temi, se è chiaro cosa significhi a livello concettuale e valoriale, non è altrettanto evidente cosa comporti nei processi di innovazione. All’antronomo il compito di renderlo effettivo.


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Centro Italiano per l’Intelligenza artificiale (I3A): perché anche la Chiesa lo sostiene

Come le grandi cattedrali della cristianità hanno cristallizzato la storia di un popolo e delle civiltà che hanno espresso e ispirato, il Centro Italiano per l’Intelligenza artificiale risponde a molte esigenze concrete, anche per la Chiesa, tra cui lo studio sulla dimensione antropologica, etica e valoriale dell’IA




La pandemia ha messo in rilievo come nonostante decenni di papers e convegni non siamo affatto pronti a fronteggiare eventi globali. L’intelligenza artificiale può aiutarci a farlo, come sistema paese e come sistema globale: penso in particolare alla necessità di una ricerca e di uno sviluppo rispetto ai trasporti, la sanità, l’energia, la difesa, la pubblica amministrazione, il credito e la finanza.
Per avvalorare il bisogno che l’Italia si doti del Centro Italiano per l’intelligenza artificiale (I3A)- Centro per il quale, a nome della Chiesa di Torino ed insieme alle istituzioni e alla società civile, mi sono battuto sia affinché fosse realizzato, sia affinché potesse nascere a Torino come, in effetti, il Governo ha deciso nell’autunno scorso – vorrei partire da alcune considerazioni: Johann Wolfgang Goethe nel suo Massime e riflessioni apparso postumo nel 1833 scrive: “Le pietre sono maestri muti, esse fanno ammutolire l’osservatore, e il meglio che si impara da loro non si può comunicare”. Le pietre in effetti parlano del tempo, dello spazio, del presente e del passato, ma anche, se non soprattutto, del futuro.

Un luogo fisico per un bene immateriale
Le grandi cattedrali della cristianità hanno, letteralmente, cristallizzato nelle colonne e nei capitelli, negli altari e nelle facciate, la storia di un popolo e delle civiltà che hanno espresso ma, soprattutto, che hanno ispirato. L’opportunità di un centro, in sinergia con altri enti sparsi sul territorio nazionale, mi pare risponda ad alcune esigenze molte concrete. La prima, che può sembrare banale ma è invece culturalmente decisiva, è quella che vi sia un luogo fisico a cui imputare un bene del tutto immateriale e sfuggente. La questione dirimente di questo tempo non è, infatti, legata alla valenza tecnica di questo tipo di tecnologia, ma alla sua valenza sociale. Pare fin superfluo in questa sede sottolineare questo aspetto.
L’intelligenza artificiale è una tecnologia che, benché tecnicamente incapace di senso, in realtà ne produce molto e di portata ampia ed intensa. Al di là della distopia delle serie tv e dei film, l’AI non rappresenta per i consociati un bene dai contorni chiari e dal significato certo. Non solo per il quivis e popolo, ma neppure per ampi settori ad alta scolarizzazione e dimensione professionale. Penso a buona parte degli ordini professionali per giungere sino ai decisori politici e istituzionali ad ogni livello.
L’effetto scatola nera mi pare del tutto evidente e preminente. È giunto il tempo di aprire quella scatola e di fare disseminazione di saperi con la maggiore ampiezza possibile e questo può avvenire ancora di più se vi è un luogo fisico, un grattacielo al centro di una città, che attiri, coaguli, irradi conoscenza e interesse su questi temi. Come un museo, più di un museo, un museo nel senso moderno e attuale, come il nostro museo Egizio sempre qui a Torino.

Un centro per promuovere sinergie e collaborazioni

Un secondo aspetto decisivo è la necessità che vi sia un centro di imputazione di rapporti internazionali autorevole e costituito. Da quando la candidatura è divenuta assegnazione, e pure in assenza di tale centro, ho personalmente ricevuto manifestazioni di interesse di soggetti più diversi, nazionali e internazionali, desiderosi di creare sinergie e collaborazioni. Viviamo un mondo globalizzato e un tempo reticolare ove la presenza di nodi e snodi è necessaria alla tenuta dell’intero sistema.
La frammentarietà e la frammentazione rispetto a temi così delicati come l’intelligenza artificiale espongono il Paese al rischio di una altrettanto frammentata politica di ricerca, di sviluppo e di collaborazione non coordinata e collaborativa, ma anche al rischio di perdere sinergie vitali laddove la frammentazione rende troppo piccoli i soggetti singoli per reggere progetti decisamente grandi e complessi. Benché sia un centro questo non significa che debba accentrare e assorbire, soprattutto le già scarse risorse destinate alla ricerca universitaria. Al contrario l’esistenza di un centro, per quanto significativo, ma mai sufficiente a sviluppare tutta la ricerca necessaria, può essere collettore di grandi interessi e risorse che vengono poi distribuite e assegnate secondo criteri di efficienza ed efficacia, senza quei particolarismi e quelle isole protezionistiche che rischiano di essere ormai male endemico anche della nostra ricerca di più alto livello.
Credo che possa avere paura che un tale centro esista solo chi sa di non fare ricerca all’altezza delle aspettative del Paese. Il bene dell’Italia e del sistema europeo è un ulteriore motivo a sostegno dell’esistenza in tempi brevi di I3A. Linee di ricerca e allo stesso tempo linee di finanziamento permetterebbero al centro di vivere e far vivere.

Intelligenza artificiale e Università

Sempre in tema di Università, per quanto encomiabile sia lo sforzo dell’accademia, la sua terza missione non è sufficiente ai bisogni culturali e di sviluppo di cultura industriale del Paese. La terza missione, come sappiamo, ha una storia di fatto molto recente rispetto alla tradizione centenaria dell’istituto universitario. Nata di fatto a metà del secolo scorso per finanziare la ricerca di base universitaria, si è poi man mano sviluppata restando sempre come “terza” rispetto a didattica e ricerca, in una posizione tra la tentazione e il fastidio. Come farla, quanto farla, perché farla? Quanto essa porta via “tempo” e risorse alla ricerca e alla didattica, quanto le risorse legate alla terza missione rischiano di condizionare la libertà nella ricerca e dunque della didattica.
Il dibattito è aperto e non si conclude perché ogni volta risente, comprensibilmente, della differenza tra la sensibilità, le vocazioni e le salutari polarizzazioni che rendono l’università viva come deve essere. È doveroso poi spendere una parola sulle nostre PMI, da sempre considerate l’ossatura del Paese ma da sempre evocate più che concretamente e fattivamente aiutate a stare in un mercato definitivamente globale. L’AI rappresenta anche per questo settore vitale un fattore di possibile sviluppo ma con la difficoltà innanzitutto culturale e concreta di sapere quale AI serva a quella determinata azienda e chi al suo interno sia capace di governarla e implementarla.

Conclusioni

I3A può essere palestra efficace in questo senso con sperimentazioni su di un territorio – quello piemontese – che gode di una varietà a spettro così ampio da essere quasi conclusivo. Infine il punto che è primo nella lista per l’interesse ed il servizio che la Chiesa desidera portare alla società, la ragione per cui esiste il Servizio per l’Apostolato Digitale che, insieme a collaboratori con varie competenze, abbiamo fatto nascere ed oggi vivere. Esso è dedicato a servire la Chiesa nel difficile compito di essere germe di unità, speranza e salvezza per tutta l’umanità all’interno delle trasformazioni tecnologiche di questo tempo, soprattutto rispetto alla loro portata da un punto di vista antropologico ed etico. Nella laicità che dovrà contraddistinguerlo, ma non in un suo inutile laicismo, I3A dovrà e potrà essere parimenti centro di studio sulla dimensione antropologica, etica e valoriale dell’intelligenza artificiale promuovendo ricerca e sviluppo su tali temi, mettendo a terra le tante statuizioni internazionali con processi che affianchino il legislatore e le diverse forme di normazioni tecnica – come i parametri ISO e similari – sino a giungere alla concretezza delle scelte di ognuno di noi per aiutarci ad imparare quanto è difficile comunicare. Ma è vitale, per l’oggi e per il domani.

Un’«agenda digitale» per la Chiesa

Vino Nuovo - L’agenda digitale è una espressione ormai frequentata in diversi ambienti: esiste una agenda nazionale, una europea, diverse aziendali, della pubblica amministrazione e via discorrendo. L’agenda digitale è un documento programmatico in cui un ente decide in modo cadenzato come adeguare la sua azione al mutato contesto sociale, politico, economico e soprattutto tecnologico.
La pandemia ha evidenziato l’urgenza dell’implementazione di tali “agende”, ha indicato le necessarie correzioni da apportare e palesato il bisogno essenziale di alcune tecnologie e la contemporanea necessità, per la tenuta democratica di un Paese, che esse siano il più possibile proprietarie, pubbliche, accessibili e diffuse. La medesima pandemia ha evidenziato quanto Giovanni XXIII disse all’inizio dell’assise conciliare: “Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane, per il bene della Chiesa”.
Non sembri eccessivo scomodare la storia in questo momento che è seriamente storico. Nel cambiamento d’epoca segnalato a più riprese da papa Francesco si innesta quanto abbiamo vissuto e vivremo ancora a lungo che a buon diritto può essere definito uno stravolgimento d’epoca. In questo processo le tecnologie emergenti hanno avuto un ruolo chiave. La cultura digitale che già ampiamente determinava il nostro quotidiano è divenuta per diversi mesi di fatto egemone, o meglio egemoni sono divenuti i suoi strumenti che hanno forzatamente veicolato posture ed atteggiamenti sino alla nostra quotidianità di vita e certamente di fede. Lo sforzo fatto da tanti di mantenere vivo il legame con il popolo di Dio, l’utilizzo massivo di tecnologia digitale per continuare didattica e vita pastorale, l’implementazione di strumenti di intelligenza artificiale per la soluzione dei gravi problemi legati al virus ed i tanti e diversi punti di cui una lista si potrebbe arricchire, evidenziano una oggettiva carenza strutturale nella compagine ecclesiale.
Le questioni in gioco non sono immediatamente dottrinali, anche se in alcuni casi come alcune modalità liturgiche lo sono state, tuttavia abbracciano totalmente l’azione pastorale della Chiesa. Ben sappiamo che ciò che la Chiesa fa rivela chi essa sia e come la pastorale sia dunque l’atto rivelativo dell’intima natura della Chiesa e della sua missione. Nel contempo è del tutto evidente che la profezia della filosofia della comunicazione oggi si avvera: il medium è il messaggio. Per noi per cui il messaggio è fondativo ed il messaggero è unico mediatore, la questione si pone in modo serio. Lo avevano intuito i padri sinodali del Sinodo sui giovani laddove scrivono: «L’ambiente digitale rappresenta per la Chiesa una sfida su molteplici livelli; è imprescindibile quindi approfondire la conoscenza delle sue dinamiche e la sua portata dal punto di vista antropologico ed etico. Esso richiede non solo di abitarlo e di promuovere le sue potenzialità comunicative in vista dell’annuncio cristiano, ma anche di impregnare di Vangelo le sue culture e le sue dinamiche» (Documento finale del Sinodo dei Giovani, 145) e che «il Sinodo auspica che nella Chiesa si istituiscano ai livelli adeguati appositi Uffici o organismi per la cultura e l’evangelizzazione digitale, che, con l’imprescindibile contributo di giovani, promuovano l’azione e la riflessione ecclesiale in questo ambiente» (n. 146).
Urge una riflessione a più voci non legata semplicemente all’uso delle tecnologie per la comunicazione come i social media, ma anche rispetto alle altre tecnologie emergenti; soprattutto urge una riflessione di tipo pastorale e un adeguamento delle nostre conoscenze rispetto a vizi e virtù del digitale per non farne un uso imprudente. La teologia deve entrare con vigore in questi temi sia per offrire al mondo un punto di vista che possa fare luce, sia per offrire alla Chiesa basi solide su cui continuare ad andare sino a confini della terra, ad incontrare nella Galilea delle genti il Risorto! Urge un’agenda digitale ecclesiale che raduni le voci singole, i diversi enti che già stanno mettendo parola in uno spirito e lettera concretamente sinodali, senza barriere di uffici, competenze o ambiti specifici.
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