Come ci cambiano i social. Il pudore digitale

Con il primo caldo s’affollano i luoghi di villeggiatura, si cominciano a scoprire i nostri corpi in cerca dell’estate alle porte. Tempo di riparlare del senso del pudore, argomento un po’ desueto, ma sempre valido e importante.
Esiste anche un pudore digitale? Credo di sì, un pudore non legato solamente alla sovraesposizione del corpo dovuta ai social media, ma un pudore ancora più intimo, nascosto, a cui facciamo poca attenzione: il pudore dei nostri dati, il nostro «intimo» tecnologico che è, invece, perennemente esposto ai quattro venti.

Profili in trappola

Un interessante studio ci dimostra che sostanzialmente tutte le piattaforme che comunemente usiamo in Rete catturano nei modi più disparati i nostri dati personali, schedano i nostri comportamenti anche più insignificanti e li mettono in fila e in files, indagando in essi, estrapolando un nostro profilo sociale, affettivo, commerciale.
Lo studio citato dimostra che anche nel caso in cui non possediamo un profilo su social media come Facebook, buona parte delle app che utilizziamo dialogano ugualmente con il colosso, raccontandogli di noi.
In gergo si chiama data tracking, ed è una pratica pressoché universale anche se sottotraccia, e certamente sottostimata da tutti noi utenti. In nome della gratuità di molti servizi e del fatto che andiamo di fretta, non abbiamo un pudore digitale, lo abbiamo perso o addirittura ci è impossibile averlo, per essere considerati sufficientemente disinibiti dai nostri contemporanei.
Se un tempo il pudore lo si metteva da parte per essere accettati dal gruppo o da qualcuno in particolare la cui considerazione era importante, oggi il pudore digitale lo mettiamo da parte per far parte della Rete, per non essere messi ai margini. Mostriamo dunque sempre di più in chiaro, ma mostriamo forse ancora di più in digitale, in computazionale. Lo fanno i giovani, ma non solo loro.
Il senso del pudore difende la nostra dignità come persone, non facendoci diventare strumento del mero desiderio altrui. Nascondere con il vestito permette all’altro di rivolgersi al volto, alla parola, alla presenza, scoprendo grazie al coperto ciò che più vale, la ricchezza della personalità e dell’interiorità (Catechismo degli adulti, 1045).

Informati, consapevoli, protetti

Tuttavia il pudore digitale sembra ormai una scelta quasi impossibile, perché la cessione di questi dati è la condizione per poter fruire del sistema.
Che fare? La strada maestra da percorrere è quella di sostenere ed educare l’opinione pubblica. In questo senso l’Europa si dimostra un soggetto attento al tema, con l’introduzione del Regolamento generale sulla protezione dei dati.
Tuttavia nulla può essere determinante come la nostra scelta consapevole e libera di tutelare noi stessi e chi ci è affidato, se necessario sacrificando parte del nostro navigare nell’infosfera evitando alcuni luoghi, così come un tempo – per ragioni connesse al pudore – si era invitati a star lontani da certi spettacoli o spiagge.
Non è neo-bigottismo, ma legittima difesa nei confronti di un sistema che si racconta come salvifico, ma sempre più si rivela predatorio.
Nulla come il comportamento di un consumatore è capace di regolare il mercato, soprattutto nell’ambiente digitale dove le scorrettezze delle piattaforme vengono perdonate con molta difficoltà.

Originale pubblicato qui