Cieli d'estate. Stelle morenti come vetrate gotiche: tra ali e occhi, quanta poesia

Le nebulose planetarie sono più di 3mila solo nella nostra galassia: il telescopio ne rivela forme e colori che sembrano opera di un pittore. Le sfumature di luce dell’eternità



Prima lettera di san Paolo ai Corinzi (15,41-44): « Non ogni carne è la medesima carne; altra è la carne di uomini e altra quella di animali; altra quella di uccelli e altra quella di pesci. Vi sono corpi celesti e corpi terrestri, ma altro è lo splendore dei corpi celesti, e altro quello dei corpi terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle: ogni stella infatti differisce da un'altra nello splendore. Così anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale». Sebbene il cielo, per chi non sa, appaia solo come una cortina punteggiata di luci, per chi guarda a lungo, approfittando dell’intelligenza umana che ha inventato tecnologia per superare la barriera dei nostri confini di terra, esso rivela i suoi segreti più struggenti.

Non è solo la nascita, ma è soprattutto la morte che nel cosmo assume le forme più splendenti nella forma di una tipologia di oggetto del cielo profondo del tutto peculiare: le nebulose planetarie. Il nome, va detto subito, è un’eredità di tempi antichi. Non hanno nulla a che vedere coi pianeti, ma devono il loro nome alla forma sferica e sfocata che ricordava ai primi astronomi, armati di mezzi poveri e tanta pazienza, i dischi opachi di Urano e Nettuno. Si tratta, in realtà, del canto del cigno di stelle come il nostro Sole. Dopo miliardi di anni di faticosa combustione, quando tutto l’idrogeno è stato consumato, il nucleo della stella collassa e gli strati esterni vengono espulsi nello spazio. Un vento stellare li spinge via, e la luce ultravioletta residua del nucleo morente li accende, come fiato su una vetrata gelata. Ed ecco che la morte si fa colore. La Nebulosa Elica (NGC 7293), ad esempio, è distante circa 650 anni luce da noi. Si trova nella costellazione dell’Acquario e al telescopio è come un occhio celeste, una pupilla immobile che ci fissa nel tempo. Ha un diametro di circa 2,5 anni luce: significa che la luce impiega due anni e mezzo per attraversarla da un lato all’altro. Ma quel che colpisce non è la misura, bensì il senso di essere davanti a qualcosa che si è appena dissolto e che già pare eterno.

C'è poi la Nebulosa Anello (M57), nella costellazione della Lira. Un cerchio quasi perfetto che fluttua come una bolla in un bicchiere di buio. La simmetria inganna: non è ordine, è abbandono. Il suo anello luminescente, quasi perfetto, è in realtà un’illusione: una struttura tridimensionale proiettata sul piano del cielo. Al centro la nana bianca, il cuore residuo della stella, pulsa fredda e inesorabile. La temperatura superficiale supera i 100.000 gradi Kelvin, ma non scalda più nulla. Il centro si è svuotato. È rimasto un guscio, e il guscio risplende per un po’, finché l’eco dell’esplosione si spegnerà anche lì. Ma per adesso, resiste. Anche qui, la chimica è sovrana. L’idrogeno fluoresce sotto l’impulso della radiazione ultravioletta emessa dal nucleo della stella spenta. Ogni colore visibile è una vibrazione precisa, un’eco di temperature che superano i centomila gradi. Il blu centrale, la corona rossastra, il bordo verdognolo: ogni sfumatura è una firma, un’indelebile testimonianza di un evento che non si ripeterà mai più nella stessa forma.

Chi scruta questi oggetti si trova proiettato nello studio di un pittore. Eppure è solo fisica. L’espulsione degli strati esterni, la ionizzazione dei gas, l’emissione di linee spettrali dovute all’ossigeno, all’idrogeno, all’azoto. Come se la morte avesse un proprio linguaggio di colori. Eppure, guardandole, si fa fatica a pensare alla chimica. Perché in esse c’è qualcosa che ricorda le vetrate gotiche, le cupole d’oriente, il volto pallido della notte. C’è in queste forme un senso di grandezza che non nasce dalla potenza, ma dalla fragilità. Perché una nebulosa planetaria è transitoria: dura solo poche decine di migliaia di anni. Poi si dissolve, dispersa tra le stelle. Quel che vediamo, dunque, è un istante cosmico, un battito di ciglia in un tempo che misura miliardi di anni. Eppure noi, pellegrini in questo spazio di eterno, abbiamo il privilegio di coglierlo. C’è qualcosa di profondamente umano in questa contemplazione: vedere la fine, e trovarla bella. La morte della stella non è una catastrofe, ma un atto di creazione. I gas che si espandono arricchiscono lo spazio interstellare, seminano elementi pesanti. Da questi nasceranno nuove stelle, nuovi mondi. Forse la vita stessa.

Noi, fatti di carbonio, azoto, ossigeno, siamo i figli di morti come queste. Si dice spesso: “siamo polvere di stelle”. Ma è più giusto dire: siamo il lutto luminoso di una stella scomparsa. E ogni nebulosa planetaria, lassù, ne è il monumento. Incontriamo una delle prime scoperte. É la nebulosa Manubrio, situata nella Volpetta. L’astronomo Charles Messier non cercava bellezza: cercava comete. Ma fu proprio catalogando ciò che non erano comete che scoprì queste meraviglie. Una lezione paradossale: per trovare ciò che passa bisogna guardare ciò che resta. Siamo nel 1764. Ma questa forma che ricorda un manubrio o forse le ali aperte di un animale mitologico è un’apparizione che continua a trasformarsi. Il gas che fu la pelle della stella madre si espande a una velocità che l’uomo non può concepire: ventimila chilometri all’ora. Gli atomi di elio e di carbonio, sono sospesi come note in un’aria che nessun respiro potrà mai percorrere. È un’esplosione che non fa rumore, e proprio per questo grida. Dentro Manubrio non c’è nulla di romantico, eppure ogni suo arco luminoso è un verso, un verso di quella poesia cosmica che parla solo con numeri e luce.

Di nebulose planetarie ce ne sono più di 3.000 solo nella nostra galassia. Moltissime con nomi poetici: la Nebulosa Farfalla (NGC 6302), con le sue ali infuocate; la Nebulosa Occhio di Gatto (NGC 6543), con le sue simmetrie inquietanti. Una pupilla celeste che ci guarda da quell’immensità, un occhio che non chiude mai le palpebre, che osserva i secoli rotolare come pietre nella corrente. La Terra stessa sarà avvolta, un giorno, da una di queste bellezze. Fra circa cinque miliardi di anni il Sole diventerà una gigante rossa, poi una nebulosa planetaria. Il nostro cielo sarà, per qualche migliaio d’anni, una tela luminosa. Poi più nulla. Ma ora, possiamo ancora guardarle. Quegli occhi nel cielo non sono solo lo sguardo delle stelle. Sono anche il nostro. Guardiamo la morte, e vi troviamo significato. E forse è questo che rende le nebulose planetarie così belle: che non sono più stelle, e non sono ancora polvere.

Sono la soglia. L’istante sospeso in cui qualcosa finisce, ma la luce non se n’è ancora andata. Una avvisaglia della più grande delle promesse di Cristo, vado a prepararvi un posto. Le nebulose planetarie sono oggetti di meraviglia che suggeriscono che la morte può avere altre sfumature che non siano il nero, le sfumature della luce delle risurrezione che incontrando la nostra vita, differente una dall’altra, proietta nell’eterno colori differenti, rende la nostra esistenza protesa verso Cristo, un capolavoro eterno, testimonianza di una buona battaglia della fede che trova nell’incontro con il Risorto la sua – letteralmente – consacrazione. In alto il cuore.

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Pensieri dal prato di Tor Vergata: Non costruire un altro mondo ma altro per il mondo

 Il sacerdote torinese, che era a Tor Vergata nel 2000, ragiona dei punti comuni e di quelli divergenti fra i due giubilei. E intravede la possibilità di un meticciato fra quei giovani e questi ma anche fra tutti gli uomini e le donne, credenti o meno che siano.

Venticinque anni sono il tempo che separa due generazioni.

Il prato di Tor Vergata non è cambiato, la stessa erba cotta dal sole. I cori, le bandiere, i cartoni con il cibo, da Sodexo a Conad, gli idranti della protezione civile, i settori ed i maxi schermi. L’elicottero bianco che sorvola ed accarezza. Il vento, il ponentino di Roma che assomiglia a quello della Pentecoste.

La grande croce è davvero la stessa perché la croce resta mentre il mondo le gira attorno. Ci sono quelli che ci sono stati.

Non parlare di ciò che è accaduto ma di ciò che accadrà

Poi ci sono tutti gli altri. I genitori alla tv, le nonne che cercano di vedere il volto dei nipoti in una marea umana in calzoni corti e canottiera, cappellino da scambiare ed ombrellino a fiori. Quelli che ne scrivono, ma loro che ne sanno. Quelli che sono arrivati in auto e quelli che sono arrivati per le strade, le metro, i cavalcavia. È una narrazione che crea il mito, la setta, la confraternita di quelli che ci sono passati. Non vorrei scrivere di questo, anche se ci sono passato, ma di quello che potrebbe essere.

Nel duemila era il calendario a dirci che eravamo ad uno snodo della storia, oggi a 25 anni di distanza, è la tecnologia a dirci che siamo ad uno snodo della storia. I ventenni di allora, come me, ne uscirono con il desiderio autentico di essere sentinelle del mattino, di mettere fuoco in tutto il mondo. Qualcuno ci ha provato, qualcuno ci è riuscito, qualcuno già sul treno del ritorno si è scordato di quella fiamma lasciandola nell’erba di Tor Vergata. 25 anni, sono il tempo che intercorre tra due generazioni. Da oggi ci sono due generazioni di giovani di Tor Vergata. Quelli di Leone con la forza dei vent’anni, la trasparenza di questa generazione, gli ideali puliti ed universali di chi le guerre le vede live sul proprio telefono. Quelli di Giovanni Paolo II, con la densità esistenziale dei cinquant’anni. Le ferite, le cicatrici, la saggezza, l’esperienza. Ed il potere di fare quello che a venti non si può.  

Il prato di Tor Vergata può far sbocciare un meticciato di giovani di ieri e di oggi

Può il prato di Tor Vergata far sbocciare una nuova varietà vegetale, un meticciato di giovani di ieri e di oggi, con la profezia dei venti e la forza concreta dei cinquanta? Con la saggezza dei cinquanta e la vitalità dei venti? Un varietà vegetale che entri nel giorno, non più a guardia dell’alba, che renda il mondo la casa di tutti, non la chiesa di qualcuno? Fondati su Cristo: il vero Dio dei vent’anni confusi, il vero uomo dei cinquanta qualche volta disillusi?

Una varietà vegetale che può sapere di incenso ma anche di asfalto, che fiorisca a Pasqua, o semplicemente il venerdì santo. Animata da una fede o cresciuta semplicemente nella ricerca. Perché, come ricordano Giovanni Paolo e Leone abbiamo sete ed il mondo fatto di cose e di parole, non disseta mai. Né le minacce o le promesse, i poteri che promettono fettine di potere, il marketing della speranza a poco prezzo.

Che tu sia credente o meno, che tu sia un giovane di Tor Vergata o meno, i giovani di Tor Vergata possono essere la spinta a non sperare in un altro mondo, ma costruire insieme a loro altro per il mondo? Sotto la stessa luce, per molti sotto la stessa croce.

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Intelligenza artificiale per il sociale: i filantropi di Nextladder nascondono qualcosa?

 Le fondazioni benefiche dei miliardari Bill Gates, Charles Koch, Steve Ballmer, del fondatore di Intuit Scott Cook e dell'investitore di hedge fund John Overdeck hanno lanciato Nextladder ventures, nuovo veicolo filantropico che investirà, mettendo a disposizione il potenziale dell'Ai, in profit e non profit impegnate nel sostegno di cittadini in difficoltà. Si investe, fa però notare don Luca Peyron, sacerdote torinese a capo dell'Apostolato digitale della sua arcidiocesi, offrendo tecnologia solo a soggetti scelti e selezionati ed in ambiti precisi. Cosa c'è sotto?

Un’iniziativa che, dopo le società profit, potrebbe finire per cannibalizzare le realtà del non profit, utilizzandole come strumento per testare sistemi di intelligenza artificiale, che potenzialmente accedono a dati sensibili di milioni di americani tra i più fragili (non a caso tra i beneficiari vengono contemplati i fornitori di servizi legati alla giustizia e alla libertà vigilata). Un’iniziativa che propone un uso benefico dell’intelligenza artificiale, ma senza neppure contemperare sistemi aperti, accessibili davvero a chiunque.

Queste le forti perplessità espresse da don Luca Peyron, sacerdote torinese, a capo dell’Apostolato digitale della sua arcidiocesi, docente della Cattolica, membro dell’Istituto Italiano per l’Intelligenza Artificiale applicato all’Industria, a proposito di Nextladder ventures, operazione filantropica da un miliardo di dollari messa in piedi dalle fondazioni benefiche dei miliardari Bill GatesCharles KochSteve Ballmer, del fondatore di Intuit Scott Cook e dell’investitore di hedge fund John Overdeck: Ballmer group, Gates foundation, Stand together, Valhalla foundation e John Overdeck.

Un mercato di tecnologie ai

A stare alle intenzioni Nextladder ventures ha l’obiettivo di contribuire alla sviluppo di un mercato di tecnologie, spinte dall’intelligenza artificiale, per aiutare assistenti sociali, difensori di ufficio e altri fornitori di servizi essenziali a superare gli ostacoli economici che si trovano ad affrontare per sostenere i cittadini a basso reddito, alle prese con perdita del lavoro, instabilità abitativa, assistenza all’infanzia, crisi sanitarie e cancellazione dei precedenti penali. 

Anthropic e il motore dell’intelligenza artificiale

Sul tavolo un miliardo di dollari, che il fondo potrà investire nell’arco di 15 anni.  Il nuovo veicolo filantropico collaborerà con il gigante dell’intelligenza artificiale Anthropic. I destinatari? Organizzazioni non profit e società già attive nella creazione di strumenti per soggetti che gestiscono enormi carichi di lavoro con poche risorse. 

Si investe, fa notare don Luca Peyron, offrendo tecnologia non a qualunque soggetto, ma a soggetti scelti e selezionati ed in ambiti precisi. Ci sarebbe da chiedere per quale ragioni certi e non altri, perché non tutti. Viene il sospetto che interessino dati nuovi, nuovi benchmark, nuovi poteri in altre fasce dopo quelle già esplorate.

Il rischio di divedere il non profit fra serie A e serie B

A scorrere i potenziali beneficiari frulla in testa continuamente il concetto di giustizia predittiva. Non solo, secondo Peyron, con una scelta di soggetti su cui investire si creerebbe non profit di serie A e di serie B, mettendo ai margini alcuni, un modo di controllare ed avere potere anche in questo settore? Per tacitare soggetti potenzialmente ostili? Quali sono gli standard su cui si misura una non profit, si chiede Peyron? Il bene che fa o gli strumenti che ha? «Investire denaro nel bene è sempre un bene, ma patto che sia bene davvero e non interesse e potere travestito da bene. Ognuno fa del proprio denaro ciò che ritiene, ovviamente, ma quando si sceglie di usarlo in un certo ambito corre l’obbligo morale di equità, trasparenza e riconoscibilità del vero bene comune perseguito. Un bene è potenzialmente ciò che è aperto a tutti, un bene per pochi per definizione non è comune». Tutto ciò che non è open, ragiona Peyron, è «proprietario». Chi investe diventa socio occulto «di qualunque soggetto che utilizza i loro strumenti. Legittimo nel profit, grigio nel non profit».

Come opererà Nextladder ventures

Nextladder ventures opererà attraverso un mix di sovvenzioni, investimenti azionari e finanziamenti basati sui ricavi, ricevendo una percentuale del fatturato delle aziende o azioni. Tutti gli utili generati dagli investimenti azionari e dagli accordi di finanziamento basati sui ricavi di Nextladder ventures saranno reinvestiti a sostegno della sua missione filantropica.

Nonostante Nextladder ventures non abbia ancora assunto impegni di finanziamento, ci sono diverse organizzazioni non profit e a scopo di lucro che i suoi fondatori hanno sostenuto o preso in considerazione individualmente e che potrebbero essere adatte alla loro nuova realtà. 

Dove investirà

Un esempio è l’organizzazione non profit Careportal, che ha sviluppato una piattaforma che mette in contatto bambini e famiglie in difficoltà con chiese locali, aziende e gruppi comunitari in grado di fornire risorse come alloggi, assistenza medica e supporto emotivo per aiutare i bambini a evitare l’affidamento. 

Un’altra è la startup a scopo di lucro Rasa-legal, la cui tecnologia aiuta i suoi clienti a cancellare i loro precedenti penali a un costo di quasi un decimo rispetto a quello tipico.

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Dedican un asteroide a un sacerdote católico: quién es y por qué

 Luca Peyron es un alegre sacerdote italiano, escritor y cofundador del Servicio para el Apostolado Digital de la Arquidiócesis de Turín.

El portal UCCR, sitio web que expresa el pensamiento de jóvenes católicos sobre diversos temas con el objetivo de profundizar en las razones de la existencia de Dios y en los fundamentos de la fe cristiana, realizó una entrevista el 20 de junio a este personaje, a quien la Unión Astronómica dedicó el nombre del asteroide por haber «sido capaz de conectar la astronomía con la conciencia colectiva, utilizando el cielo profundo no solo con fines científicos, sino también para el crecimiento cultural y educativo» con sus publicaciones. 

Luca Peyron es un alegre sacerdote italiano, escritor y cofundador del Servicio para el Apostolado Digital de la Arquidiócesis de Turín. 

En la entrevista a UCCR explicó un dato relevante de su actividad en la astronomía: “Hoy el cielo profundo, las nebulosas, las galaxias y los meteoritos forman parte de las herramientas pastorales con las que intento anunciar el Evangelio y tejer un diálogo entre diferentes saberes. Una pasión privada que, de hecho, pronto se convirtió en una herramienta pastoral: me temo que se trata de una deformación vocacional”. 

Sobre la relación entre su trabajo científico y la pastoral con los jóvenes universitarios encontró la utilidad del diálogo entre la ciencia y la fe: “Los años pasados en los pasillos del Politécnico y de la Universidad de Turín me han llevado a convencerme de que el diálogo es esencial”. 

Aclara el papel de la conexión entre fe y vida: “Creo que una de las grandes cuestiones de nuestro tiempo es mostrar la pertinencia de la fe con la vida, y esto pasa hoy por una vida profundamente marcada por la cultura científica y técnica (…). Dar cuenta de la fe en la actualidad y confirmar a los que viven la fe no se aleja tanto de las pruebas científicas de la existencia o inexistencia de Dios. Pasa por el camino de los Reyes Magos, que hacen de la ciencia un camino que conduce a las preguntas con significado, para encontrarse con Aquel que da sentido a cada pregunta”. 

Ve la cercanía entre fe y ciencia como algo más que una casualidad: “Releer las páginas de la Biblia con los ojos vueltos al cielo es fuente de descubrimientos siempre nuevos, visiones extraordinarias y sugerencias espirituales. Empezando por los dos más sencillos: Nuestro Padre que está en los cielos y el Dios en quien creo, Padre creador de los cielos. ¿Es un complemento de lugar o la revelación de una conexión entre la paternidad de Dios y la belleza que colorea la noche?”. 

Ante la insistencia sobre la mente científica y Dios, sugiere una reflexión profunda: “El auténtico creyente es una persona que no deja de hacerse preguntas y no se conforma con clichés. Necesita un encuentro concreto y real, una inteligencia existencial (…) El cielo, sea cual sea la razón por la que se mire -ciencia, poesía o un apagón de internet- es sin duda uno de los mejores despegues para una aventura de significado y de la fe. Es por eso que redescubrirlo y devolvérselo a la gente apaga algunas luces innecesarias”. 

A quienes opinan que no hay rastro de una ayuda superior que venga a salvarnos de nuestras lacras, el padre Luca respondió: “No me siento un privilegiado a costa de los demás. Me siento investido por una belleza que me hace feliz, me hace sentir amado y querido. Y espero que no sea solo mía o solo para mí. Tiene razón (Karl Sagan) al decir que somos irrelevantes, los gusanos de Jacob (…). Yo estoy agradecido de que el Sol invada la Tierra y la caliente. Estoy agradecido de que Cristo haya traspasado mi naturaleza humana y la haya redimido. Sí. Esta ayuda llegó. No de otra parte. Sino de siempre”.


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Leone XIV alla Cei. Don Peyron: “L’intelligenza artificiale interroga la fede, serve un’antropologia profetica"


Dopo il discorso di Leone XIV ai vescovi italiani, don Luca Peyron riflette sull’urgenza di un’antropologia teologica per abitare l’epoca digitale. “Non basta l’etica: occorre profezia. La fede ha ancora molto da dire all’umano smarrito tra algoritmi e solitudini”

“La fede ha ancora una pertinenza con la vita”. Don Luca Peyron, sacerdote torinese e teologo esperto di cultura digitale, commenta uno dei passaggi più densi del discorso rivolto da Papa Leone XIV ai vescovi italiani: quello sull’antropologia e sulle sfide poste dall’intelligenza artificiale. Un intervento, afferma, “profetico e non di circostanza”, che rilancia la missione della Chiesa in un tempo segnato dalla tecnocrazia. “La sfida – dice – è pensare cristianamente il nostro tempo, per custodire e annunciare la dignità della persona come creatura e mistero”.

Nel suo discorso alla Cei, Leone XIV ha detto che “la persona non è un sistema di algoritmi: è creatura, relazione, mistero”. Come interpreta questo passaggio?
Non è un invito formale, ma una scelta sostanziale. Non è un discorso di circostanza. Il Papa desidera che questo tema entri nel cuore della riflessione delle Chiese, non solo di quella italiana. Fin dall’inizio del suo ministero ha posto l’intelligenza artificiale tra i segni dei tempi. Leone XIV non parla solo di tecnologia, ma intreccia pastorale e antropologia. Quando insegniamo il catechismo ai bambini, ci rivolgiamo a nativi digitali. Quando parliamo di carità, dobbiamo tenere conto anche del divario esistenziale generato dai social media. E quando diciamo “salvare”, i nostri contemporanei pensano a un file. Tutto questo ci lascia pensosi.

Quindi non basta un’etica della tecnologia. Serve altro?
Esatto. Non possiamo limitarci a fornire criteri per governare le tecnologie. Dobbiamo offrire un’antropologia profonda, che sia guida e profezia. Non basta dire “attenzione, ci sono dei rischi”. Siamo chiamati a indicare un orizzonte di senso e una meta per l’umanità immersa nel digitale.

In questo discorso si intravede una sintesi dei Papi precedenti?
Mi pare evidente. Leone XIV prosegue il cammino di Francesco e, per certi aspetti, recupera intuizioni di Benedetto e Paolo VI. Ciò che emerge è un’antropologia cristologicamente fondata: il punto di incontro autentico con il mondo. L’umanità di Cristo è un patrimonio condivisibile anche da chi non ne riconosce la divinità. E non si può spezzare Cristo: annunciando la sua umanità, annunciamo tutto il Vangelo.

Perché Leone ha scelto proprio la Cei come prima Conferenza episcopale a cui rivolgere questo appello?
Credo sia una sorta di “sperimentazione pastorale”. È vescovo di Roma e ha scelto la sua Conferenza episcopale per rilanciare un tema già affidato da Francesco a università cattoliche e diocesi. Ma ora è evidente a chiunque che è tempo di agire. Serve animare un dibattito culturale che abbia un’anima: l’antropologia teologica, centrata su Cristo.

Quali ricadute vede sul piano pastorale?
La ricaduta è enorme. Ogni battezzato che rende ragione della sua fede è invitato a ripensare la propria testimonianza. Non possiamo semplicemente adattare il noto al nuovo. Serve rivisitare Scrittura e Tradizione affinché lo Spirito ci suggerisca elementi utili a discernere e guidare il tempo attuale.

Ha un esempio concreto?
Nel Vangelo di Matteo, Gesù è definito “facitore di tecnologia”. Non è un dettaglio. È un titolo cristologico, che per secoli non abbiamo granché esplorato. Se oggi una macchina imita l’umano, allora quel titolo acquista un peso nuovo. I Vangeli contengono tesori che parlano ad ogni stagione culturale.

Quindi non si tratta di aggiornare l’esistente, ma di avviare una nuova esplorazione?
Proprio così. Non dobbiamo fare la glossa di ciò che è già stato detto, ma riprendere la Scrittura con occhi nuovi. Non è questione di colpe o mancanze, ma di un novum che chiede di essere scoperto.

Serve anche un cambio di mentalità nel modo di fare pastorale?
Dobbiamo uscire dalla logica del “cercare colpevoli” per ciò che non ha funzionato. Non è tempo di nostalgie, ma di profezie. E oggi manca profezia. Non ci sono più profeti né di ventura né di sventura. La Chiesa ha una responsabilità storica rinnovata: offrire parole e gesti che ridicano la pienezza dell’umano a un umano smarrito e in cerca di identità.

La Chiesa può ancora incidere nella vita quotidiana delle persone?
Abbiamo davanti ogni settimana centinaia di persone. Non dobbiamo fare lezioni di intelligenza artificiale, ma annunciare Gesù Cristo. Ma Cristo è oggi, in questo tempo. La preparazione di chi fa pastorale deve nutrire il popolo di Dio con conoscenza e profezia. C’è in gioco la libertà, le relazioni, la solitudine. La fede. La pastorale della cultura non è per intellettuali: è soprattutto per le persone semplici, troppo spesso in balia dei titoli “acchiappa-click”.

Cosa risponde a chi dice che la Chiesa è sempre in ritardo su scienza e tecnologia?
È un mito da sfatare. La Chiesa ha duemila anni di storia. Solo in pochi secoli ed in alcune circostanze ci siamo arroccati. Per il resto ha generato cultura, scienza e tecnologia. Dall’irrigazione nelle missioni in Africa al Big Bang di Le Maître, prete e cosmologo. L’idea stessa di progresso è figlia del cristianesimo. La cultura precristiana era ciclica. Noi abbiamo introdotto la parola “compimento”. Un cammino, un pellegrinaggio, una crescita. Oggi è il momento di riconsegnarlo al mondo.

Qual è, in definitiva, la sfida più urgente per la Chiesa?
Oggi abbiamo una nuova possibilità di mostrare che la fede ha una pertinenza reale con la vita. Perché la vita interroga profondamente la fede cristiana: ci chiede incarnazione e redenzione, corpo e metafisica. Nell’epoca delle macchine e della virtualità digitale, Cristo resta l’orizzonte in cui l’umano può ancora compiersi pienamente. Qui e nell’eternità.

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Voci dalle cupole: intervista a don Luca Peyron


È trascorso un lustro da quando PLANit ha iniziato a far ascoltare le voci che arrivano dalle cupole. Sono quelle degli operatori museali, degli astronomi e dei planetaristi che hanno raccontato le loro esperienze. 

Il protagonista di questa nuova puntata della serie “Voci dalle cupole” è Don Luca Peyron, “sacerdote astronomo” della Diocesi di Torino dal 2007. Prima del 2007 svolgeva attività accademica e professionale nel campo del diritto industriale. La sua doppia preparazione, in giurisprudenza e teologia pastorale, ora si incontra con compiti assai diversi che vanno dall’insegnamento della teologia negli atenei al fare il cappellano universitario, sino al parroco. Il suo contributo alla riflessione rispetto alla cultura digitale è diventato sempre più conosciuto e importante: ha fondato il Servizio per l’Apostolato Digitale ed è stato il primo promotore della Fondazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale, che oggi ha sede a Torino. Un impegno a 360° per tenere insieme fede, scienza e tecnica.

Vi invitiamo ad ascoltare la sua testimonianza, certamente molto originale, nel video che è stato realizzato da Gian Nicola Cabizza insieme a Loris Ramponi.

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Leone XIV e le sfide dell’intelligenza artificiale

Tre indizi fanno una prova. Leone XIV sarà un Pontefice che si occuperà e non poco di tecnologia ed in particolare di intelligenza artificiale. Lo si può dire non per vaticinio, ma perché lui stesso, nelle pochissime parole che ha già consegnato alla storia, ne ha fatto insistito riferimento. Lo ha fatto parlando ai cardinali che lo hanno eletto nella sala nuova del sinodo, lo ha fatto il giorno dopo parlando agli operatori dei media. Ma soprattutto lo ha fatto scegliendo il nome Leone XIV. Annunciato all’Urbe ed all’Orbe dal cardinal Mamberti quel Leonem ha stupito tutti ed ha scatenato il vaticanista che è in ognuno di noi. Ma è stato lo stesso Papa a darne l’interpretazione autentica: “Proprio sentendomi chiamato a proseguire in questa scia, ho pensato di prendere il nome di Leone XIV. Diverse sono le ragioni, però principalmente perché il Papa Leone XIII, infatti, con la storica Enciclica Rerum novarum, affrontò la questione sociale nel contesto della prima grande rivoluzione industriale; e oggi la Chiesa offre a tutti il suo patrimonio di dottrina sociale per rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che comportano nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro”. Una interpretazione che Robert Prevost si era premurato di comunicare tra i primi a Matteo Bruni, direttore della Sala Stampa Vaticana, che la sera stessa dell’elezione ne diede ufficialmente notizia. Bruni che è stato convocato in sala regia pochi minuti dopo la fumata bianca e ben prima dell’apparizione dalla Loggia delle benedizioni, fatto mai accaduto nell’elezione di un Papa.

I media, ma anche i lettori ormai abituati all’immediatezza dell’informazione, stanno in queste prime ore e giorni letteralmente pendendo dalle labbra del Pontefice sezionando parole e gesti nel tentativo di comprendere future decisioni ed indirizzi. Il nome Leone XIV è uno dei pochi dati certi che possediamo. E non è un dato da poco perché la scelta non è mai legata ad un vezzo, ma è quasi il titolo della prima enciclica programmatica di un Pontefice. La metamorfosi digitale ed il suo impatto sulla società, sull’essere umano e sul suo/nostro essere amministratori del creato attraverso il lavoro saranno al centro del pontificato di Robert Prevost o per meglio dire ruoteranno all’unico centro autentico e perenne che è Cristo stesso con una meta ben precisa: la giustizia e la pace. Già il Magistero di Francesco aveva individuato nell’intelligenza artificiale e nelle tecnologie emergenti un fattore decisivo rispetto a questi due temi. Basti citare il messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2024, polarizzato proprio sull’AI e le sottolineature insistite, per esempio nella Laudato si’ o nei discorsi al corpo diplomatico. Il Magistero, dunque, ci ha già consegnato una lettura inevitabile: l’AI è un segno dei tempi, non una moda passeggera o una contingenza storica.

La scelta di Leone e quanto man mano ci verrà donato come impatta e che significato ha per il mondo universitario, per l’Università Cattolica in modo particolare? Per rispondere questa volta un po’ dobbiamo consultare la palla di vetro e leggere, con tutti i rischi connessi, più che parole dei segni, che però ragionevolmente possiamo cogliere come segnali. Papa Leone ha usato una parola, sinodalità, ha evocato un passaggio della Evangelii Gaudium sul dialogo con il mondo, ed ha parlato della scelta del nome al collegio dei cardinali riunito davanti a sé. Papa Prevost costruirà ponti con il mondo sul tema dell’intelligenza artificiale – e non solo naturalmente – camminando con la Chiesa e nella Chiesa. Guidando la Chiesa nel suo ruolo di sintesi, ma ascoltando la Chiesa e nella Chiesa chi, per mandato, ministero e vocazione è particolarmente attento ad alcuni temi. Già Francesco aveva invitato le Università ad occuparsi della metamorfosi digitale ed essere a servizio del mondo per dare una interpretazione, un collocamento culturale e degli elementi di governo che custodissero l’umano. Leone XIV si metterà in continuità piena con il suo predecessore, consapevole da buon agostiniano della differenza tra fede e ragione, tra pastorale e scienza, tra accademia e rivelazione. Ma nell’orizzonte fecondo del dialogo, nel segno della Cattolicità cristologicamente fondata di cui è garante sommo. Quell’et et che scaturisce dalle due nature di Cristo e che culturalmente significa la continua ricerca di equilibri dinamici che permettano di allargare sempre l’orizzonte così da tenere insieme quanto, di primo acchito, sembrerebbe difficilmente conciliabile. Sarà entusiasmante, per il nostro Ateneo e non solo, continuare ad essere partecipi di un processo culturale importante, fedeli alla nostra tradizione ed ai nostri fondatori. In dialogo ancora più costante e serrato con i nostri studenti, con i ricercatori ed i docenti più giovani, in quella comunione tra antiqua et nova che è nel nostro Dna.

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