“Il mondo digitalizzato è un luogo teofanico”. Leggi questa frase e,
dopo aver trovato conforto nel dizionario, non puoi che chiederti alla
Di Pietro che c’azzecca un’affermazione così alta come quella che arriva
da un prete, con i messaggi sempre più spesso orfani o assassini
dell’italiano e pure di un minimo di riflessione che invadono chat e
social. Ma soprattutto domandarti come questo sacerdote torinese,
chiamato alla vocazione quando già faceva l’avvocato e con un sindaco di
Torino nell’albero genealogico di una famiglia della buona borghesia
subalpina, riesca spiegarti perché quel mondo digitalizzato, la rete, i
social, siano “il luogo in cui ascoltare il Signore che chiama, scoprire
la nostra identità personale misurandoci con la realtà e lavorando in
essa”.
Lui, don
Luca Peyron, 46 anni, nipote di
Amedeo,
primo cittadino di Torino dal 1951 al 1962, ultimo di una generazione
di otto sacerdoti, ma nell’album di famiglia anche toghe, sia pure da
magistrati e non da avvocato come quella che lui ha vestito per un po’
prima di entrare in seminario, ti spiazza subito: “Il titolo del libro
che ho scritto,
Incarnazione digitale, l’ho scelto io e non,
come spesso capita, l’editore”. Perché anche un titolo serve, eccome, a
“esprimere esattamente questo concetto: Gesù Cristo si è fatto carne, di
una carne assolutamente come le altre, con le stesse fragilità, Gesù
Bambino se la faceva addosso come me la facevo io, si sbucciava le
ginocchia, come tutti noi. Questo per dire che non c’è nulla da quel
momento della storia in poi che non possa essere toccato dalla grazia di
Cristo per un credente, dalla dimensione trascendente dell’umano per un
non credente”.
Nulla, compreso la rete con tutte le sue contraddizioni, bufale,
eccessi che, insieme a tante cose buone, porta con sé? “Certo, il mondo
digitale è un mondo frammentato, sincopato. Ha presente i grandi
mosaici? Sono di una bellezza incredibile e capaci di raccontare la
storia, ma sono fatti di pezzettini. Nel mondo digitale come in un
enorme, infinito mosaico, bisogna dare un’armonia a ciò che è
frantumato”. Insomma, occorre cercare l’anima anche nel mondo
digitalizzato, come spiega nelle sue lezioni di “Spiritualità
dell’innovazione” che tiene all’Ateneo torinese e alla Cattolica di
Milano.

Viceparroco di
Beinasco
appena uscito dal seminario, alle spalle una breve ma intensa attività
forense sul fronte delle questioni legate alla rete, definire don Luca
un prete 2.0 rende l’idea ma troppo in sintesi. E la sintesi, la
brevità, la concisione che porta a quel terribile xchè al posto di
perché nel linguaggio dei social, non è sempre buona cosa. Quasi mai.
“Quando si hanno troppe informazioni che non si è in grado di processare
si va per scorciatoie, cerco semplificazioni. Questo è uno dei grandi
problemi del mondo digitale. Ma è un problema dell’uomo, non del mezzo”.
Ti ferma subito, don Luca, se la butti come viene naturale sull’errore
di approccio con internet e i suoi derivati. “La questione non è
nell’approccio, se parliamo di approccio facciamo un errore tipico della
mia generazione: guardiamo questo mondo da fuori non rendendoci conto
che ci siamo dentro. Quindi non si tratta di avvicinarsi a qualcosa e
come farlo, noi ci siamo dentro. Non si tratta di guardarlo da fuori, ma
di viverlo da dentro. E allora lo possiamo vivere in tanti modi, così
come possiamo vivere in modi diversi la biosfera: posso camminare per un
pezzo di strada evitando di usare l’automobile o inquinare, non
strappare un fiore ma guardarlo e basta”.

Lo
strumento. E l’uomo. “Abbiamo un mezzo che ha una capacità di
pervasività globale, quindi non è che i social hanno scatenato qualcosa,
è quel qualcosa che è nel cuore dell’uomo ha la capacità di viaggiare
in maniera molto più veloce e più ampia rispetto a prima, ma sempre lo
stesso male dell’uomo”. Eccola la risposta dell’uomo di chiesa sul
rovello che ti butta in faccia, come fanno purtroppo sempre più spesso i
social, la questione del razzismo, del diverso, dell’intolleranza con
post e tweet che diventano ora granate, ora colpi di cecchini
miserevoli. “Dove viaggia il male viaggia anche il bene. Se semino odio
sul web a un certo punto io stesso navigherò nell’odio, che lo voglia o
no”.
Quanto ai ritardi della Chiesa, pure con un Pontefice che usa i social,
il sacerdote torinese ribatte deciso: “C’è la vulgata secondo la quale
siamo indietro, ma non è così vero. La Chiesa è spesso se non sempre
avanti: nell’Ottocento era pacifico che negli istituti religiosi ci
fossero direttrici, ci fossero caposala negli ospedali della Chiesa. La
Chiesa era avanti anni luce. E oggi non è certo la Chiesa che dice: non
usiamo i mezzi tecnologici. Perché la Chiesa non può avere paura della
realtà, che è stata redenta da Cristo”.

Una
carriera ecclesiastica incominciata non presto, ma presto in costante
ascesa, quella del giovane avvocato che dimessa la toga e indossato
l’abito talare è stato individuato dall’arcivescovo
Cesare Nosiglia
per un incarico non certo semplice, dati i tempi: da sei anni don
Peyron è responsabile della pastorale universitaria. E anche qui ci è
arrivato con il web. Senza quegli orpelli che, si voglia o no, ci
portiamo dietro. Lui impiega un attimo a spazzarli via: “Come gli
analogici vestono i digitali, gli adulti vestono i giovani ed è un
grosso male. La mia generazione ha scaricato su quella successiva un
peso culturale: noi non siamo stati adulti e chiediamo a loro di esserlo
prima del tempo. Noi abbiamo fatto come marito e moglie che hanno una
crisi coniugale e chiedono ai figli di risolverla. I giovani hanno una
limpidezza che la mia generazione non aveva, solo che questa limpidezza
cristallina è molto fragile”.

Risponde
che no, non sono delusi né smarriti. “Sanno che il mondo che gli sta
davanti è fatto in un certo modo e stanno cercando di attrezzarsi per
starci. Sanno che non avranno il posto fisso e tante altre cose, ma non
lo sanno in maniera diacronica. Noi abbiamo l’immagine del prima e del
dopo, loro non ce l’hanno. Un po’ com’è capitato a me vivendo da
ragazzino gli anni di piombo: non sapevo che prima si stava meglio, non
capivo quando mio papà tolse il nome dal campanello perché avevo due zii
magistrati. I giovani vivono il loro presente, ma noi non possiamo
caricarli di ciò che non siamo stati“.

L’università
fucina della futura classe dirigente nata e cresciuta nel digitale, ma
anche nella crisi che in Piemonte ha morso e morde più che altrove.
Lamentele e smarrimento. E ricerca, sempre, si figure cui volgere
speranze o illusioni. Un’altra visione distorta, per il prelato che quel
mondo accademico lo vive e lo frequenta. “Il giorno che è morto
Sergio Marchionne
– racconta – ho fatto una riflessione moto semplice: sicuramente era un
capitano d’industria, ma nel momento in cui muore come è possibile che
tutti abbiano paura che un sistema come quello
Fca improvvisamente
si disintegri, subisca pesanti conseguenze? Ecco, io credo che non sia
il trovare un uomo solo al comando ciò che ci porti fuori dalle secche.
Meglio riflettere sul fatto che siamo un tessuto sociale capace di molte
cose, che quello che abbiamo e siamo in positivo non è frutto
dell’opera di uno, ma di molti se non di tutti. Non corrisponde alla
storia del nostro Paese, del nostro Piemonte pensare che serva un Mosè
per attraversare il deserto”.
Stefano Rizzi
Orginale pubblicato
qui