Stiamo vivendo tutti in maniera più o meno intensa le conseguenze della pandemia sulla società, e in particolare sul mondo del lavoro.
Se da un lato lo slogan di qualche decennio fa, «i robot ci toglieranno il lavoro», ha solo più i toni di una romantica battaglia d’altri tempi, oggi le questioni in gioco sono non meno profonde e significative.
La trasformazione digitale avanzata ha radicalmente modificato il modo di lavorare soprattutto nei suoi aspetti gerarchici e organizzativi, incidendo nei diritti e nei valori molto di più che non in passato, dove la questione di fondo era quanto lavoro, quale e per chi.
Tutta l’impresa e tutte le imprese, pur con densità diverse, sono soggette alla trasformazione digitale, e uno dei fattori di primo impatto è il passaggio verso una smaterializzazione della prestazione lavorativa e una conseguente smaterializzazione del rapporto gerarchico e direzionale.
Nei magazzini di Amazon
Detto in altri termini: molto del lavoro che oggi viene prestato è sottoposto al controllo, alla gestione e all’organizzazione di macchine piuttosto che di essere umani. Diversi lavoratori hanno come immediato o mediato superiore un algoritmo e non un capo ufficio o settore. Accade nella distribuzione, nella filiera finanziaria e di calcolo e via discorrendo. Pensiamo come possano incidere poi le diverse rilevazioni attuate attraverso gli strumenti digitali sul lavoro effettivo delle persone e la loro produttività.
Se l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori sulla videosorveglianza venne posto a presidio della libertà e della dignità delle persone emancipandole dalla schiavitù del controllo di biblica memoria – i mattoni d’Egitto –, oggi un algoritmo qualunque misura la produttività infinitamente meglio di qualunque cerbero. Il caso dei magazzini di Amazon è un esempio tanto semplice quanto iconico.
Un altro versante che il COVID-19 ha enfatizzato è quello dello smart working e dell’erosione della separatezza tra ambiente di vita e di lavoro, del minor costo del lavoro per l’impresa e del conseguente aggravio che ricade sulle spalle del lavoratore stesso (connessione, buoni pasto ecc.). Gli esempi sono molteplici.
In questo spazio vorrei fare una considerazione di fondo che mi pare sostanziale. Il diritto del lavoro non può stare al passo di fenomeni così accelerati: né il legislatore né il giudice hanno la possibilità reale nel costituire un valido presidio. Il piano va dunque ribaltato: non è la legge o il giudice a dover inseguire la realtà, ma essi devono disegnare meglio i confini della creatività imprenditoriale.
Ridefinire le relazioni industriali
Non è più il tempo del contenimento, ma del disegno responsabile; non è più il tempo della gestione della realtà, ma quello di definire le linee che si vogliono per il futuro. Una rivoluzione digitale impone un’adeguata rivoluzione o conversione anche nelle dinamiche del processo giuridico e della produzione, sempre democratica, di strumenti di tutela. È necessario spostare l’attenzione dal bene tutelato alla tutelabilità del bene.
In gioco vi è anche la libertà necessaria dell’imprenditore, che non può essere impedito nella sua azione e nella sua capacità di reazione nel mercato e nella competizione globale. Non sono certamente un sostenitore dell’ipertrofia dei lacci che strozzano le nostre imprese.
Una soluzione possibile è un sistema che recuperi effettivamente il valore e il peso dei corpi intermedi, dal sindacato alle associazioni di categoria, ove sia effettivo e reale l’orizzonte valutativo e valoriale che permetta un effettivo bilanciamento degli interessi in gioco.
La disintermediazione che il digitale impone con un conferimento di potere alla macchina, in altri termini, va bilanciata con una più forte intermediazione della componente umana nelle sue aggregazioni democratiche