Prove di democrazia nella ricerca scientifica ed algoretica

 La democrazia oggi passa molto più attraverso i bit che attraverso i sistemi convenzionali o classici. La questione non riguarda solamente l’uso delle piattaforme sociali per influenzare il voto delle persone, ma in maniera molto più incisiva, anche se del tutto mimetizzata, ha a che fare con la ricerca scientifica ed in particolare con i sistemi di intelligenza artificiale. L’Ai è diventata parte essenziale del nostro quotidiano ed il suo peso nel disegnare il mondo che verrà, anche dopo la pandemia, è riconosciuto come un dato di fatto.

Tra gli ultimi documenti in tal senso si può citare il Getting the future right – Artificial intelligence and fundamental rights dell’European Union Agency for Fundamental Rights che fotografa come viene utilizzata e percepita l’Intelligenza Artificiale in diversi Paesi europei. La conclusione del report è importante: l’Ai è adulta, ma la consapevolezza delle sue implicazioni nei diritti umani è ancora nell’infanzia. Come dunque essa viene disegnata, impiegata e quali siano i campi di ricerca e sviluppo da mettere in agenda è una questione di importanza ed interesse collettivo, non semplicemente individuale o di settore.

Un recente studio di due ricercatori, uno della Ivey Business School, Western University e l’altro del Virginia Tech, mostra come la complessità dell’intelligenza artificiale restringa oggi il campo delle possibilità di ricerca esclusivamente alle grandi università collegate alle grandi imprese in un abbraccio che lascia esclusi tutti gli altri. Ciò avviene per la necessaria potenza di calcolo e per le basi di dati, ambedue beni essenziali e costosi. Tra le diverse questioni che questa situazione fa emergere ne vorrei evidenziare due, fondamentali.

Da una parte l’effettiva possibilità di sviluppare intelligenza artificiale che non abbia come scopo principale ridurre i costi, di fatto a detrimento del lavoro umano, ma una intelligenza artificiale che possa essere strumentale ad una collaborazione uomo macchina che favorisca la valorizzazione di diverse forme ed espressioni di intelligenza umana e della sua impiegabilità. Questo tipo di intelligenza artificiale, ad impatto sociale, non ha un effettivo ed immediato mercato e dunque rischia di non essere sviluppata, come quelle medicine che non esistono perché curano solo pochi soggetti.

La seconda questione è squisitamente culturale, educativa e dunque etica e valoriale. Laddove la ricerca e lo sviluppo sono riservati a pochi soggetti viene meno quel confronto libero e quel dialogo necessario affinché vi sia progresso autentico della scienza e dei saperi e, in questo caso specifico, verrebbe anche meno una narrazione plurale degli scopi, dei risultati e della affidabilità dei sistemi. La velocità della trasformazione digitale non permette una regolamentazione standard dei processi, in altri termini il legislatore ed il giudice saranno sempre troppo lenti.

A presidio di una AI buona resta oggi quasi esclusivamente la società, l’opinione pubblica e la sua incidenza sul mercato, peccato che l’intelligenza artificiale sia per la maggior parte del mondo solo una espressione curiosa e distopica, una scatola nera di difficile interpretazione. Di qui risulta ancora più evidente che solo una narrazione plurale sarebbe presidio di libertà e di responsabilità. Un esempio può valere per tutti: definire lavoretti i lavori della cosiddetta gig economy li ha resi socialmente accettabili, perfino desiderabili laddove, invece, essi hanno di fatto impoverito il concetto stesso di lavoro ed i presidi giuslavoristici faticosamente riconosciuti nel tempo. L’Istituto Italiano per l’Intelligenza Artificiale, la cui sede principale è stata assegnata a Torino ed il cui finanziamento auspichiamo entri nella legge di bilancio, dovrà avere anche questo compito: educativo e culturale a largo spettro affinché una delle più belle creazioni dell’intelligenza umana non diventi un ulteriore strumento per dimostrare la grettezza di cui l’umano è talora capace.

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