I giovani leader hanno più fiducia negli algoritmi che nella politica

 

Cosa emerge da una consultazione mondiale che ha interessato più di due milioni di giovani in tutto il mondo.



Basta umani, vogliamo le macchine. È quanto emerge da una consultazione mondiale pubblicata in questi giorni che ha interessato più di due milioni di giovani in tutto il mondo, in 150 città di 180 nazioni diverse, giovani che appartengono ad una rete, i global shapers, legata al World Economic Forum. Giovani che la sanno già lunga, giovani che avranno le mani in pasta, perché già un po’ le hanno, con i giusti contatti e soprattutto con le persone giuste ad ascoltarli. Ho partecipato insieme ad alcuni amici dell’Apostolato Digitale ad un loro forum sui temi della trasformazione digitale ed ho colto interesse, curiosità e voglia di fare. Dunque l’espressione secondo la quale hanno più fiducia negli algoritmi che nella politica mi fa pensare, ci deve far pensare. Si esprimono così: “I giovani ritengono che abbiamo una grave crisi politica. Credono che le fratture sociali che si sono verificate siano manifestazioni di un problema politico di fondo. Per i giovani le preoccupazioni per la corruzione e la leadership politica stantia sono diventate priorità urgenti se si vuole che mantengano fiducia nel sistema politico. Il sondaggio ha rilevato che i giovani avrebbero maggiori probabilità di fidarsi di un sistema gestito da una intelligenza artificiale piuttosto che da esseri umani.

Per risolvere il problema, si chiedono maggiori investimenti in programmi che aiutino le voci progressiste giovanili a prendere parte attiva nel governo e diventare influenti policy maker”. Insomma meglio le macchine di voi, in alternativa noi al vostro posto, magari - aggiungo io - assistiti dalle macchine. L’arroganza dell’affermazione è tipicamente giovanile, e questo non ci disturba affatto anzi ci sembra un segno positivo di vitalità positiva. L’affermazione piuttosto ci restituisce uno spaccato molto interessante della cultura che abitiamo e che per buona misura condivide oggi il 65% del pianeta (tanti sono i millennials e i nativi digitali messi insieme). L’affermazione algoritmica mi fa battere il cuore e le tempie. Doppiamente intesa: usare l’algoritmo per una denuncia così violenta e paradossale, ma nello stesso tempo credibile, una minaccia che avvertiamo come seria, una alternativa in fondo percorribile. A nulla valgono le narrazioni distopiche da 2001 Odissea nello spazio a Black Mirror. Anzi, la loro grottesca caricaturalità in fondo ha generato nei giovani la convinzione che il lupo non esiste e nel bosco si possono portare ceste di mele senza paura. La nostra generazione ha così deluso quelle successive da far loro pensare che una macchina sia preferibile all’umano? Se vi chiedete cosa non ha funzionato siete in errore: ha funzionato tutto benissimo ed è per questo che siamo qui. Una cultura efficientistica e tecnica, una narrazione economica di salute pubblica e salvezza digitale, una martellante campagna a detrimento dell’umanistico in favore dell’informatico hanno generato i frutti sperati. Vi sarà forse sfuggita la notizia per cui la Howard University di Washington, università che ha formato la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris, ha deciso di smantellare il corso di studi classici. Perché la macchina non può fare politica? Per la medesima ragione per cui i governi esclusivamente tecnici hanno sempre deluso e fallito.

La complessità sociale non si può governare con la semplificazione algoritmica, perché l’essere umano non è semplice causalità numerica e dunque non lo è la società. Ciò detto non dobbiamo scegliere tra la romantica “la fantasia al potere” del ’68 ed il “w le macchine” del post pandemia. Perché semplicemente possiamo non scegliere e per una volta prenderci tutto. La teologia ci viene in soccorso: nel cattolicesimo un principio di fondo è quello del et et che si contrappone all’aut aut. Esso nasce dal fatto che Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo. Non bisogna sempre scegliere: in questo caso ogni scelta che escluda l’altra è considerata eresia, impoverimento e quindi falsa. Cristo cammina sulle acque, ma ha paura nel Getsemani. Si trasfigura sul Tabor, ma interroga da ragazzino i sapienti del tempio. Una dinamica non polarizzante e non polare permette alla cristologia di essere strumento di lettura tanto dell’umano, l’esito antropologico, quanto del divino, l’esito teologale. Un equilibrio complesso e talora difficile, ma possibile, anzi auspicabile perché decisivo. La teologia può offrire a questo tempo, ed ai suoi giovani, il medesimo criterio. Non è necessario scegliere tra uomo e macchina. Ma è ben possibile tenere insieme uomo e macchina affinché il primo segni l’orizzonte che nutre la speranza e la seconda permetta di individuare le strade più efficaci per raggiungerlo. Il primo ricordi che vi è un resto da includere che ha pari dignità e la seconda affretti il passo di chi non comprende che fare sempre nel medesimo modo non è più possibile. L’uomo porti le sue radici, la macchina la forza per tendere a frutti abbondanti. L’alleanza è sempre più promettente dello scontro e dell’eliminazione reciproca. Ancora una volta la Bibbia è capace di raccontarcelo molto puntualmente.

Stiamo ragionando su questi temi con molti amici, prendendo le mosse da una parola, antronomia: mettere l’essere umano al centro di un processo che produce tecnologia emergente. I giovani sono attesi, in dialogo, non in un processo che contempera poteri, ma in un dialogo che renda generativi i carismi ed i talenti.

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