Cara business community, impara ad ascoltare i giovani

 Dopo gli ultimi episodi di cronaca un appello accorato per una cultura di impresa che riprenda per quanto possibile la tradizione “familiare” e “sartoriale” delle relazioni aziendali italiane.



Il vuoto. Ancora una volta. Diana ha scelto il vuoto alle spiegazioni per una laurea ritardata, con solo un esame ancora da sostenere. Sono un cappellano universitario ed ho celebrato già troppi funerali con lo stesso canovaccio.

Anni fa, la mamma di una ragazza che fece la stessa tragica scelta di Diana, mi disse tra le lacrime che mai avrebbe pensato di andare dal fiorista e chiedere che le cambiasse la corona della laurea con il cuscino da mettere sul feretro di sua figlia.

La morte tragica ci interroga. E noi tentiamo delle risposte. Tra sociologia, economia e psicologia. Più raramente spiritualità, purtroppo. Ne scriviamo, e loro continuano a scegliere il vuoto. Competizione esasperata ed esasperante, sistema educativo ed economico, famiglia e società, perdita dei valori, turbocapitalismo, vetero comunismo.

Colpevoli cercasi

Questo mi pare il primo punto. Un tempo che si diletta nel cercare colpevoli e non soluzioni, non può che dire a chi ci nasce guardati dal non essere colpevole perché non avrei soluzioni da offrirti. Ma molti patiboli.

Se ti butti di sotto accade perché nessuno ti ha trattenuto dal farlo. Ci si butta da soli. Questo mi pare un secondo punto. La solitudine di una generazione figlia di una generazione che ha fatto dell’essere soli, del far da soli e del vivere da soli motivo di vanto e di conquista.  È vero che si muore comunque da soli, ma è vero che non si può venire al mondo che in compagnia. E per voler stare in questo mondo il più a lungo possibile una compagnia è biologicamente necessaria.

La condizione digitale ci regala mille occasioni di connessione, ma quante di socializzazione? Il fluire del tempo su di uno schermo, quante tracce di vita e di desiderio di incontro concreto e reale costruisce?

La questione non è tecnica, ma culturale. Se fisiologicamente un giovane cerca socialità è altresì vero che la cerca e la esperisce nelle forme culturali del suo tempo, che il suo tempo gli offre. Se la socialità che essi conoscono fa a meno del corpo, è schermata e renderizzata, filtrata e cosmetica, possiamo chiamarla ancora socialità? Possiamo, soprattutto, pensare che sia la socialità che, fisiologicamente, necessita loro?

Decenni di cultura prodiga di consigli su come prevaricare la natura, non ad amministrarla, portano frutti avvelenati e per giunta opportunamente mimetizzati da una sensibilità ecologica che i giovani hanno, ma che i vecchi rischiano di sbandierare e non applicare.

Perché scriverne su questa testata?

Sono convinto che in questa temperie culturale la cultura di impresa e quella generata nel mondo economico, abbiano uno spazio ed un riflesso sulla società più significativo di altre “agenzie” culturali come la politica o il mondo dell’educazione. Oggi mission e vision delle imprese condizionano le agende delle nazioni e il sentire delle persone.

Di qui la condivisione, anche in forma di appello, per una cultura di impresa che riprenda per quanto possibile la tradizione “familiare” e “sartoriale” delle relazioni aziendali italiane. Forse un po’ paternalistiche nel passato, ma anche paterne e materne in molti frangenti. Ricominciare a chiedere ai nostri giovani come stanno e non solo cosa sanno fare o cosa hanno fatto, è una necessità di salute pubblica essenziale in questo tempo.

Valorizzare la socialità in presenza, l’intergenerazionalità informale, la condivisione dei saperi e della vita è un benefit aziendale difficile da mettere in bilancio, ma ineludibile per la tenuta sociale ed il benessere delle nazioni e delle famiglie. Non è necessario formalizzare tutto, medicalizzare ogni aspetto del vivere, men che meno professionalizzare e terziarizzare tutto questo. Meno linee guida e più personalità che guidino possono in parte riempire il vuoto che sta inghiottendo una generazione.

E in ultimo, ma non ultimo, anzi basilare, è necessario permettere che il senso religioso che abita l’umano possa avere quartiere senza quei laicismi che sterilizzano ogni forma trascendente lasciandoci solo macerie immanenti.

Senza il senso di un oltre, religioso o filosofico che sia, l’umano perde se stesso ed il suo nucleo più propriamente umano.

Lavoriamo insieme con rinnovato amore affinché Diana domani non si butti più nel vuoto, ma tra le braccia di chi le ha chiesto ogni giorno come stai. Restando disponibile ad ascoltare la risposta, qualunque essa fosse.

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