Fece discutere, durante la pandemia, il caso di una condanna a morte delibata in Nigeria via Zoom: era la primavera del 2020, ed evidentemente il boia non poteva aspettare che si potesse tornare in presenza. La morte fisica venne decisa senza il concorso di alcuna fisicità, o solo con una fisicità mediata dallo schermo. Casi molto diversi con esiti e peso legale e antropologico ben differente, tuttavia in qualche modo coerenti con una tendenza che ci fa riflettere. La fatica della presenza, i suoi costi, le sue correlazioni e conseguenze premono sulla realtà spingendola verso il virtuale. Abbiamo tutti imparato quanto tempo e risorse possano essere liberate usando il digitale in vece della presenza fisica. Tutti abbiamo risparmiato ore di viaggio e scomodità connesse per riunioni di una manciata di ore che avrebbero richiesto giorni per gli spostamenti. Bene lo sanno coloro che hanno funzioni legali che investono ore per presenziare a un rinvio, a una costituzione di parte del tutto formale, e via dicendo.
Come spesso accade quando la tecnologia ci facilita la vita, occorre riflettere però su cosa fare del tempo e delle risorse risparmiate. Così come riflettere su quando tempo e fatica non possono essere sacrificati in nome della semplice efficienza di un sistema. Questa generazione deve rispondere non solo alla domanda sul quando è importante essere presenti, ma anche sulle modalità. Digiuno, preghiera ed elemosina sono una straordinaria chiave di accesso a queste risposte perché sono la risposta alle tentazioni di base. Appetiti, progetti e possesso sono le tentazioni che Gesù vince nel deserto, quelle medesime che ogni tempo, compreso il contemporaneo, ci offre. Nelle forme dell’ubiquità, della virtualità e della replicabilità infinita e gratuita. Essere ovunque e con chiunque, ma non essere davvero con nessuno. Costruire mondi alternativi, continui e cangianti ma senza vivere il qui e ora della realtà concreta, talora piatta e scomoda. Attingere e distribuire, ma senza riconoscere il valore attinto e senza pagarne mai un costo effettivo, rendendo privo di valore ciò che non ha richiesto lo scambio di alcun valore. È la nostra contemporaneità digitale incorporea, ove il processo di creazione di valore si è trasferito così tanto nell’immateriale da rischiare di non farci più percepire il fatto che il reale ha valore in sé stesso. Come tale.
Chi crede è chiamato a vivere in questo periodo quaresimale alcuni impegni nella sua realtà. Il digiuno ci restituisce il senso del corpo e delle sue istanze, anche del dolore e delle sue frontiere, là dove lo Spirito ha sempre parlato all’essere umano rivelandogli la sua dignità trascendente come sul Tabor. La preghiera restituisce la fatica e la necessità di relazioni univoche ed esclusive, fondatrici e non frammentabili ove nell’unità di tempo si costruisce la comunione, in luogo della molteplicità meramente numerica. Infine, l’elemosina, ove la rinuncia non è fine a sé stessa ma investe nella fraternità, e l’io è chiamato a riconoscere un noi concreto e non ipotetico, senza il quale l’io stesso perde di ogni senso e significato. Digiuno, preghiera ed elemosina esercitate nel reale ci restituiscono consapevolezza e formazione nel discernimento del virtuale. Perché un giudizio verrà, non nel metaverso ma alla fine del mio tempo, e in quel giudizio io vorrei essere capace di consegnare me stesso a quella presenza reale e amante che mi ha convinto materialmente in terra, per essere eternamente vissuta nella totalità della comunione spirituale in cielo. Lieto di aver usato la tecnica, lieto di averne fatto a meno al tempo opportuno e nelle occasioni opportune.
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