«Il progresso non si ferma ma pensare che l’uomo sia superato è pura follia»

INTERVISTA A DON LUCA PEYRON «Non penso che si debbano mettere dei limiti alle nuove conoscenze Quelle autentiche generano sviluppo»

La corsa del progresso sempre più inarrestabile suggerisce interrogativi di natura etica ai quali non è facile dare risposta. Ci devono essere dei limiti oltre i quali non andare? E ancora: l’innovazione va regolamentata? Governata? In molti sollevano dubbi e avanzano paure: l’uomo difende il suo spazio e il suo lavoro ‘minacciato’ dalle tecnologie che - paradosso del paradossi - lui stesso propone. Don Luca Peyron, che tra i vari incarichi che svolge insegna sociologia dell’in no vaz io ne presso l’Università Europea di Roma, ci aiuta a individuare un perimetro etico nel quale inquadrare una tematica tanto delicata.

In questi decenni ci hanno spiegato che il progresso non si può fermare ma deve essere governato. Secondo lei il progresso deve avere dei limiti? E se sì quali sono? 

«Il progresso non penso debba avere dei limiti, esso è strutturalmente incapace di sopportarli e anche chi ha tentato nel tempo di darne ha fallito. Il progresso deve avere degli scopi che siano ulteriori a se stesso. Il progresso per il progresso è privo di senso. Il progresso autentico è quello che genera sviluppo, questo dovrebbe essere il nostro comune orizzonte».

L’intelligenza artificiale sta facendo passi da gigante con sviluppi impensabili solo qualche mese fa. Crea opportunità uniche ma allo stesso tempo ci fa immaginare un mondo senza limiti che spaventa molti anche fra gli addetti ai lavori. L’uomo è pronto per gestire questa situazione?

«Penso che l’essere umano non debba gestire la tecnologia ma la debba gestare. Sembra un gioco di parole ma è l’elemento di rivoluzione di cui abbiamo oggi bisogno. Da una tecnologia che ha come fine quello di superare i limiti ad una tecnologia che ha come fine custodire la vita nel più ampio significato che vita può assumere. Natura, umano, creato nel suo complesso. Questo siamo capaci a farlo perché vivere è non solo parte del nostro istinto, ma è soprattutto parte della nostra dimensione trascendente. In teologia è esattamente questo il carattere proprio dell’umano conferito dal divino. Vivere in abbondanza». 

Tutela del diritto d’autore, riconoscibilità dei contenuti creati artificialmente, contenuti fake, responsabilità dell’uomo rispetto all’algoritmo: l’intelligenza artificiale porta con sé quesiti irrisolti sulle ricadute etiche. Qual è la sua opinione?

«Dobbiamo distinguere tra sfruttamento economico di una invenzione o creazione dell’ingegno, per cui possono esistere forme diverse di tutela e strumenti giuridici articolati che sono in continuità con il passato o possono essere in discontinuità con esso e il diritto inalienabile dell’essere umano ad essere riconosciuto autore di un’opera dell’ingegno assumendosene onori e oneri. La questione in questo tempo mi pare si debba focalizzare qui. Come tutelare l’espressione dell’umano, non in termini apprezzabili economicamente, ma in termini prima di tutto squisitamente umani. Come tutelare ed educare l’essere umano ad essere creativo, ad esprimersi come tale? Questa è la frontiera nel mondo del copia e incolla o della delega assoluta alla macchina di quanto ci umanizza».

La società e la politica appaiono in ritardo e il rischio - che parzialmente già si intravvede –è quello di alzare barriere e porre dei divieti. È la strada giusta? O è quella obbligata?

«La politica così come scuola e università sono mondi che strutturalmente sono poco capaci di stare in modo efficace in un fluire di novità come quello digitale. Ci vuole più di un anno per fare una legge, e forse anche di più per cambiare dei piani formativi. In un anno nel digitale cambia lo scenario dieci volte. Oggi più che mai credo che la responsabilità sociale di stare con saggezza e discernimento nei cambiamenti spetti all’impresa che, nativamente, ha velocità di reazione maggiori, se non proprio consone. Per di più è l’impresa, oggi, che fa la cultura. Dobbiamo decidere insieme quale cultura e per chi». 

L’intelligenza artificiale è in grado di generare contenuti di qualsiasi tipo: testi, foto, video, musica e tanto altro e riesce a farlo in tempi brevissimi. Queste potenzialità suggeriscono due interrogativi: come ci si difende dai contenuti errati o contraffatti e come si può esercitare una forma di controllo? 

«Non condivido l’approccio. Pensare di controllare tutto questo è velleitario. Possiamo fare tutte le norme che vogliamo, ma non sarà mai questa la soluzione. Non è il diritto penale che abbassa il gradiente di pericolosità dei consociati, ma un orizzonte di senso condiviso, un sistema di vita che sia giusto ed equo e via dicendo. Il male non si combatte contenendolo, ma evidenziando come il bene sia più appetibile, più alla portata del nostro desiderare. La strada è il sostegno al bene, che digitalmente significa evidentemente molte e articolate vie».

Uno dei rischi più evidenti dell’in - troduzione dell’IA è quello legato alle conseguenze sull’occupazione: molte figure professionali qualificate e fondamentali fino a oggi - penso alla diagnostica per immagini nella sanità ma gli esempi possono essere tanti – si sentono in pericolo. Stiamo esagerando? 

«No, credo che sia un fatto ineluttabile che alcune professioni muteranno veste. Questo fa parte del progresso che non si ferma. Lo sviluppo è fare in modo che avvenga gradualmente per chi non è in grado di mutare pelle in tempi brevi, penso a chi è a fine carriera, immaginando dei tempi di transizione. La questione che mi pare più cogente rispetto a questi scenari è educativa: abbiamo una scuola ed una università di stampo ottocentesco che di fatto risponde a delle necessità di conoscenza e saperi che non solo non corrispondono alle necessità del presente ma, soprattutto, rischiano di non educare le persone a diventare adulti capaci di quel pensiero critico e adattivo necessario a vivere, non solo lavorare in questo tempo».

La macchina, il robot che sostituisce l’uomo è uno degli scenari tanto cari alla fantascienza. Ci stiamo arrivando? 

«Lo scenario che mi preoccupa, e che ha un sostrato filosofico e antropologico ben preciso, è che l’essere umano pensi che diventare un cyborg sia un vantaggio e una scelta desiderabile. Immaginare che l’essere umano vada superato perché strutturato male e non adatto al tempo che viviamo è pura follia. Quello che temo è una pulizia etnica culturale secondo la quale solo coloro che si possono permettere inserti tecnologici che potenzino l’umano siano degni di stare al mondo e governarlo. Questa più che fantascienza distopica, è lucida follia di cui leggo troppo spesso. Questo tempo ha bisogno di profezia autentica sull’essere umano, capace di condurlo al suo vero compimento e non ad un suo annichilimento al grido di una religione ove l’efficienza e l’efficacia siano gli unici possibili comandamenti. Curiamo l’umano in tutti i modo, ma non pensiamo che essere umani sia una malattia da cui guarire».

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