Riprendiamo in mano la nostra umanità

 Luca Peyron (Torino, 1973), giurista e teologo. Dirige la Pastorale Universitaria Regionale, coordina il servizio l’Apostolato Digitale, uno dei primi servizi a livello globale della Chiesa Cattolica che si occupa del rapporto tra digitale e fede in stretta collaborazione con il Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede. È docente di Teologia presso l’Università Cattolica e presso l’Istituto Universitario Salesiano di Torino, Faculty Fellow del Centro Nexa del Politecnico di Torino, socio dell’Internet Society e membro del Consiglio Scientifico dello Humane Technology Lab dell’Università Cattolica. Don Peyron è forse una delle figure più adatte oggi per disegnare i contorni di un argomento che spesso può sembrare controverso e non facile da affrontare: l’AI; specie se rapportato all’etica o alla religione. Lo ha intervistato per noi Francesca Ranza, torinese, avvocato operante nel campo del diritto civile, con particolare riguardo alle realtà aziendali e alla loro evoluzione.

L’intelligenza artificiale farà parte del nostro quotidiano (lo è già magari)?

«L’intelligenza artificiale e le tecnologie cosiddette emergenti sono parte del nostro quotidiano già da diverso tempo. Pensiamo ai trasporti, alla sanità, a tutto ciò che è comunicazione, dalla telefonia, al web, ai social. La prossima frontiera, che è già qui, sarà il comparto bancario e assicurativo, e quella ancora dopo il trattamento e l’estrazione di valore dalla mole enorme di dati che verranno da tutti i dispositivi connessi tra loro che governano e governeranno la nostra quotidianità; come sensori di ogni tipo, regolatori dell’uso energetico nelle nostre case e oltre. Quanto è accaduto per la scrittura, per la macchina a vapore e per l’elettricità, sta accadendo con l’intelligenza artificiale. Non potremmo pensare a un mondo che non la contempli. Con cambiamenti epocali sotto tutti i punti di vista. In positivo, maggiori risorse e potenzialità, e in negativo, questioni sociali, antropologiche, economiche ed etiche del tutto inedite».

Hai detto che il carico etico-valoriale nel disegnare AI è fondamentale, anzi indispensabile, specie nell’ottica di un successo imprenditoriale. Perché?

«L’etica non è forma, un vezzo, un fiocchetto che se si ha la possibilità di aggiungere al pacco; aiuta, ma l’importante è il pacco e il suo contenuto. L’etica non è quella cosa noiosa che si aggiunge per fare i perfettini e quelli a modino. L’etica, almeno così la si può intendere, è ciò che regola i nostri desideri. Il desiderio è uno dei motori più potenti del nostro agire, soprattutto del nostro agire umano che non è fatto solo di bisogni, primari o di altro genere. L’etica è il volante con cui noi indirizziamo il nostro esistere verso la meta che riteniamo bella, vera, umana. Se l’intelligenza artificiale è il potente motore che la contemporaneità ci consegna, esso, tanto più è potente, tanto più deve essere indirizzato in modo proprio se non vogliamo che ci porti a sbattere in modo drammatico contro il muro della storia. Chi prima comprende che questi temi sono decisivi nel modello imprenditoriale, prima potrà offrire dei prodotti e servizi che siano accettabili dai consumatori che, auspicabilmente, cominceranno a scegliere non solo in base all’efficienza di un sistema, ma anche alla capacità di quel sistema di stare nel proprio mondo secondo i valori e i fini che il consumatore reputa importanti. Faccio un esempio: una bambola, una macchinina, i giochi delle costruzioni della nostra infanzia dovevano avere solo delle caratteristiche produttive di non nocività. Non dovevano rompersi, non dovevano avere vernici tossiche, o pezzi troppo piccoli da essere ingeriti se destinati a infanti. Domani i nostri figli e nipoti avranno, e cominciano già ad avere, giocattoli che parlano, ascoltano, dialogano, consigliano. Dovranno avere come caratteristica primaria quella di non avvelenare il cuore e il cervello dei bambini, più che lo stomaco. Etica nella tecnologia è questo. Un oggetto che interagisce con me per accompagnarmi dove voglio, non dove lui ha deciso. Accompagnarmi ad essere pienamente me stesso. Deve servire, non asservire».

Dunque l’etica quale strumento fondamentale a sostegno della governance delle tecnologie, per indicare per l’appunto la strada eticamente più sostenibile e più giusta. In un’intervista per la RAI ti sei definito un “uomo felice”. Si potrebbe pensare che l’AI non tenda, come dire, a privilegiare i sorrisi, e ciò ci ricorda quanto sia fondamentale la felicità, prendersene cura e anche rappresentarla.

«La felicità per me è data dall’essere pienamente chi sono, dallo scoprire ogni giorno la mia vocazione in senso spirituale ma anche semplicemente umano, esistenziale, ed accoglierla, farla fiorire. Possibilmente con gli altri, per gli altri. La macchina non comprende queste questioni, non può farlo perché semplicemente non ha contezza della realtà perché può solo misurarla, replicarla, formattarla. Ma non ne comprende il senso. La macchina non pensa, anche se la diciamo intelligente, calcola. Di qui nasce la considerazione che la macchina non può sapere cosa sia la felicità quindi non è alla macchina che possiamo chiedere un consiglio o farci prendere per mano verso la felicità. La felicità è una questione umana, nostra. Una meravigliosa quanto faticosa responsabilità. Essa vale perché costa. Non si può appaltarla a terzi, men che meno a una macchina. L’intelligenza artificiale può aiutarci a togliere fatica al nostro quotidiano, mettere insieme ciò che non avevamo visto e farci scoprire delle connessioni, impedirci di affogare nei dati. Ci restituisce così tempo e forze. Da investire nello scoprire noi stessi, gli altri, la nostra dimensione trascendente. Scoprire e realizzare la nostra vocazione, se mi è permesso usare un termine più mio, teologico».

Ecco, si è passato molto tempo a evidenziare cosa l’AI ci avrebbe “sottratto”, senza considerare le grandi possibilità, dirette e indirette, di approfondimento umano che ci offre. Perché succede?

«L’AI fa paura perché è difficile da comprendere, persino da chi la progetta. I non addetti ai lavori oggi sono costretti per capirla a fare ricorso alle narrazioni dei film distopici e sono spaventati da molti articoli sensazionalistici. Credo che sia giunto il momento di prendere tutti coscienza che la questione è così decisiva che non si può più essere superficiali. Chi ne parla deve fare servizio pubblico con cognizione di causa e non rincorrendo la pancia del lettore o del consumatore. L’AI ci aiuta, prima di tutto, a riprendere in mano una questione di fondo che abbiamo tutti lasciato da parte per troppo tempo e che i giovani, con la forza e la delicatezza della loro età, ci chiedono di assumere nuovamente. Il bene comune, l’essere una comunità di destino su questo pianeta, che, come dicono loro, non ha un piano b. L’intelligenza artificiale ci può spingere oggi a ripensare cosa sia intelligenza, i cambiamenti che produce, a valorizzare un sistema scolastico che aiuti ad avere un pensiero creativo e laterale che la macchina non ha, la capacità di calcolo a restituirci tutto il valore di quanto non può essere calcolato, come la bellezza, l’amore, la fiducia, la generosità. La macchina fa cose non propriamente umane, aiutandoci a riprendere in mano il nostro proprio umano. Tutto può accadere, però, se ci assumiamo di nuovo la responsabilità dell’altro, della sua educazione, della sua crescita, della sua conoscenza. Smettendo di anteporre il fatturato a tutto il resto, le cose alle persone, i poteri alle relazioni. La macchina funziona, noi possiamo serenamente smettere di pensare di essere una macchina e di fare delle nostre funzioni il fine ultimo dell’agire».

Hai avuto un ruolo importante nella prima missione spaziale nella storia della Chiesa, Spei Satelles, che ha coinvolto il Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, l’Agenzia Spaziale Italiana, il CNR, lo IUSVE di Venezia e il nostro Politecnico di Torino. Perché una missione spaziale del Papa?

«Per dire che la speranza, spei satelles significa in latino “custode della speranza”, nasce dal fare insieme, dall’andare oltre la difficoltà, dall’usare la tecnica per la pace e la concordia, per dire che scienza e fede non sono nemiche. Per ricordare al mondo che la tecnica è motore di speranza e non di divisione, frattura, ingiustizia, solo nella misura in cui crea inclusione, fratellanza, cura, attenzione. Spei Satelles è stato costruito soprattutto da giovani, è stata una scelta mirata. È giovane non solo chi ha l’età per dirlo, ma chi ha il cuore che non smette di battere di passione per l’umano, chiunque sia, ovunque sia, solo perché esiste, perché è umano e vive in un mondo che deve custodire perché all’umano è affidato».

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