Gli orizzonti dell’intelligenza artificiale

È parte delle nostre esistenze, professionali e familiari. È contemporaneamente driver di sviluppo e generatrice di ansie più o meno latenti. Protagonista indiscussa e continuativa delle pagine dei giornali e dei piani di aziende di ogni calibro. Più che una tecnologia ormai un mantra, uno spauracchio, spesso un hype. Per qualcuno una bolla e un’allucinazione molto simile a quelle, le allucinazioni, che ogni tanto restituisce ai suoi utenti. L’intelligenza artificiale o AI per dirla con un acrostico anglofono. Comunque la si pensi e la si consideri l’AI non è più solo un artefatto tecnologico, ma una cultura. Questo la trasforma da mezzo in fine, da strumento ad ambiente. Da elemento di interesse per specialisti a questione che investe la società nel suo complesso.

Di qui l’interesse di molti che normalmente non se ne occuperebbero, di qui anche l’interesse, il prendere parola e l’animare processi da parte della Chiesa Cattolica. In questo senso è significativo ed iconico il fatto che Papa Francesco abbia desiderato partecipare, primo Pontefice romano nella storia, ad una sessione del G7 condividendo con i leader mondiali convenuti una riflessione proprio sull’intelligenza artificiale. Quali brevi considerazioni possiamo condividere in questo spazio? Mi pare tre elementi fondamentali.

Il primo è che la velocità di questa tecnologia debba essere considerata con molta attenzione. Per velocità intendo la capacità di restituire risultati di un modello di AI, ma soprattutto la velocità con cui modelli nuovi ne sostituiscono altri, nuove funzionalità sorpassano le precedenti seguendo una curva di sviluppo che, almeno per ora, sembra poter essere arrestata o rallentata solo dalle risorse che possono essere messe in campo: quantità di daticapacità computazionaleenergia disponibile. La velocità ci restituisce la consapevolezza che l’intelligenza artificiale non possa essere governata dal legislatore, nazionale o sovranazionale che sia. L’AI Act dell’Unione Europea piuttosto che le legislazioni nazionali o gli eventuali regolamenti possono disegnare qualche cornice; tuttavia, rischiano di diventare molto velocemente desueti e quindi inutili se non dannosi, certamente inefficaci rispetto ai fini previsti ed auspicati. La soluzione che intravvedo non è quella, dunque, del far west, del libero esercizio in attesa di mettere cerotti in presenza di eventuali danni come, ad esempio nella galassia di common law dei Paesi anglosassoni. Le mutazioni sociali ed economiche, i danni concreti e le sperequazioni che tali sistemi sono in grado di generare non permettono un terremoto incontrollato e per giunta accettato e accolto consapevolmente. Il secondo elemento è democratico. L’intelligenza artificiale è un potere di tipo computazionale che è sostanzialmente in mano a pochissimi soggetti nel mondo. Siamo di fronte per la prima volta nella storia a un oligopolio mondiale assolutamente inscalabile e, per ragioni di fatto geopolitiche e geostrategiche, politicamente protetto. Che il mondo sia di fatto governato da poche imprese sembra una distopia dei film degli anni ’90 del secolo scorso, ma è quanto sta accadendo. Taluni giuristi hanno addirittura definito questo scenario come neofeudale.

Il terzo elemento è la vita delle persone: la velocità del cambiamento rende quasi impossibile alle organizzazioni e ai singoli di avere la capacità plastica di adeguarsi a quanto accade. Non è certamente l’uso distorto di termini trasposti da altri domini, come resilienza, la soluzione. Non siamo una barra di ghisa. Perché debbo pensare a me stesso e all’organizzazione di cui ho la responsabilità in termini della metalmeccanica, ma non dell’antropologia? Posti questi elementi di scenario, quale orizzonte è possibile proporre? Un orizzonte, appunto. Anziché una rincorsa propongo un obbiettivo. Comune, antropologicamente auspicabile. Se l’AI toglie fatica, ebbene questa fatica deve essere sempre di più orientata non all’efficienza e all’efficacia dei sistemi, elementi scontati perché insiti nel fatto tecnico, ma alla realizzazione della vocazione umana.

Possiamo immaginare di costruire un sistema sociale e d’impresa in cui il rapporto umano-macchina abbia come orizzonte la maggiore e migliore umanizzazione dell’essere umano nell’uso delle macchine? Può l’AI, correttamente progettata, implementata e usata, restituire un io più umano, umanizzato da relazioni più umane, umanizzato da un ambiente che umanizza e non distorce, “macchinizza”, de-umanizza? Dato il fine ultimo, condiviso con i consociati, creando una cultura e una consapevolezza che determinano un consenso condiviso, possiamo legittimamente correre tutti verso una direzione in cui accanto al profitto fiorisca l’essere umano, lasciando alla macchina il compito di servire e all’essere umano quello di vivere. In un’alleanza che guarda a uno sbocco profetico di questo tempo confuso ma ordinabile.

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