La cultura classica e gli imperativi della tecnica

Da qualche decennio il mondo della tecnica e dell’impresa insiste che la scuola e l’università si spostino il più possibile dalla lettera al numero, dal latino all’informatica, dalla letteratura classica a quella distopica. Gli argomenti, variamente ordinati e ordinanti, sono in prevalenza piuttosto uniformi, e non stupisce. Non stupisce perché nell’organizzazione sociale ove la macchina acquisisce sempre più spazio sembra che lo spazio dell’umano sia sempre più residuale e, soprattutto, al servizio della macchina. Uniforme, uniformabile, uniformato. Connettibile. Il mantra è: formate affinché i giovani trovino lavoro, formate quadri che possano stare sulla mia parete, ingranaggi che possano far muovere il motore della mia impresa. Il latino sa di vecchio.



Il greco non ne parliamo, ma avete visto che fino ha fatto l’economia greca? Manzoni superato. Beh, lo abbiamo ritirato fuori con il Covid e la peste, ma insomma mica capita una pandemia tutti i momenti. Chi ha ragione? Resto dell’idea che ha sempre ragione chi ha delle ragioni. Degli argomenti, un discorso. E abbia più spesso torto chi si ferma alle narrazioni, all’esempio dell’ultima ora, alla panzana che, nell’etimo, parla solo alla panza. L’etimo, appunto.

Nello spiegare ai miei studenti il capitalismo di sorveglianza o il neofeudalismo di certi schemi sociali o come funziona l’algocrazia ricorro spesso alle parole, alla loro radice latina o greca. Non per fare sfoggio di cultura, ma per consegnare loro un orizzonte di senso. Tornare alla radice delle lingue, anche quelle antiche, non uccide quelle vive: le fa nuovamente fiorire. La lingua, primo artefatto tecnologico che l’essere umano abbia creato, non è infatti solo funzione di un messaggio, veicolo di informazione, strumento di correlazione. È prima di tutto custode del senso, accumulato nella sua storia, nelle sue mutazioni, nelle sue metamorfosi.

Mai come in un tempo di metamorfosi digitale saper ritornare alla radice ci permette di distinguere il frutto buono da quello avvelenato, la menzogna dalla verità. La res dalla fake. Non è solo questione di allenamento neuronale: chi ha incontrato Tacito o Livio e si è sorbito le parasanghe forse è più capace di pensiero laterale, di analisi e sintesi. Ma non è detto. Certamente chi è passato sotto le mura di Troia, chi ha attraversato il Peloponneso e i gironi danteschi, chi ha viaggiato sulla Luna prima che vi sbarcasse l’Apollo, molto semplicemente ha il gusto di immaginare e pensare. Che è sinergico, non sostitutivo, del pensiero che computa e risolve, che va meglio strutturato e più opportunamente insegnato. La logica cattolica non è mai aut aut, ma et et.

Nell’epoca delle macchine pensanti, sento fortemente il bisogno di sapere che ci sono e ci saranno uomini e donne che continuano a pensare, che si assumono la responsabilità di pensare perché hanno trovato nelle batracomiomachie o nella vicenda di Leon Battista Alberti fonte di ispirazione. L’educazione e la cultura per tutti, non solo per le élite, è stata una conquista meravigliosa. A cui oggi vogliamo rinunciare nel nome della fatidica frase: a cosa mi serve? In armi esiste un ruolo particolarmente duro e odioso: il servente al pezzo. Chi è? Il soldato, semplice, grande e grosso, che mette i proiettili nelle culatte dei cannoni e toglie i bossoli dopo lo sparo. Un compito terribile. Davvero desideriamo che i nostri figli siano serventi delle macchine e nulla di più? Leon Battista Alberti: ci ha fatto vedere in due dimensioni le tre, ha “inventato” la prospettiva. Ecco, è tutto qui. Prospettive.

Ogni volta che ci facciamo la domanda, rispetto alla cultura, a che cosa serve la risposta è sempre una sola. A farti servire. Ed è una cosa cattiva. Dal latino captivus, schiavo. Cristo ci ha resi liberi, ricordandoci che nella nostra carne, prima delle sue funzioni, vi è un logos che la abita. Che deve studiare più e meglio l’informatica, ma sulle ginocchia del Manzoni, andando ogni tanto a riveder le stelle.

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